“Cenerentola” vista da Antonio Cataldo
…il Principe, direbbe il vostro (non più) piccolo recensore. Poi basta aprire le porte dell’armadio della cameretta (meglio quello grande nella stanza da letto matrimoniale) per dare libero corso all’immaginazione e costruire, tre sedie a dondolo a mo’ di carrozze e comodini come improvvisati caminetti, la scena della fiaba.
Il teatro è negli occhi di chi guarda, e anche lo spettatore più cinico e passivo non riuscirebbe a non vedere l’enorme cucina da lavare, i ricchi letti da riassettare o la splendida sala da ballo piena di cavalieri, dame, specchi e candelabri. Il teatro si è sempre servito dello sguardo costruttivo della platea per riempire i vuoti, gli scarti, le distanze tra il reale e l’immaginato, quella inevitabile approssimazione nella ricostruzione della scena che ha sempre presupposto la complicità degli spettatori per rendere plausibile la presunzione di realtà. Il cinema no, non può pretendere un simile contributo da parte di chi guarda. Ancor meno la televisione che ha annullato quasi del tutto il filtro tra gli osservatori e l’osservato, pretendendo l’oggettività del più totale realismo. Ma il realismo è (l’)impossibile (come dice qualcuno). E allora briglia sciolta alla fantasia, tanto a supporto della narrazione c’è il forte archetipo della favola e dell’immaginario visivo globalizzato.
Allora ecco un palco vuoto con un solo ingombrante arredo scenografico, un grande armadio bianco che sembra uscire dritto dritto dalla stanza del Bianconiglio. Per un attimo le ante si aprono a mostrare un ometto seduto e triste, poi si richiudono e ne esce una fanciulla vestita di stracci che reca con sé un tavolino da tè con sopra gli arredi di una cameretta delle bambole, mentre scorrono note di carillon, quasi a sigillare, con questo cortocircuito scenografico (il pubblico sta al gioco che si svolge in cameretta, e gli attori-bambini usano veri giocattoli), l’intesa con la platea. E così l’armadio è la porta da cui entrano ed escono i personaggi e che segna i cambiamenti immaginari di set. È la volta delle sorellastre, attrici-ballerine con corsetti e culottes come nella classica versione Disney, che cercano di vestirsi con gesti goffi e maldestri. E sono tutte mossettine e linguacce, frizzi onomatopeici e lazzi mimici, come si addice alle bambine più antipatiche della compagnia. Infine – che paura! – spunta da sopra l’armadio la matrigna brutta ed arcigna che fa muovere le figlie come burattini appesi ad invisibili fili.
Non c’è linguaggio in questa versione della fiaba, non ce n’è bisogno: tutti sappiamo come procede, o meglio, non c’è il teatro di parola, ma una sorta di grammelot gutturale fatto di francesismi, di parole inglesi e di napoletano, quasi indistinte, come parlano Paperino, i Teletubbies o altri protagonisti della televisione pre-scolare. Ma la musica c’è: musical a ritmo sfrenato dello swing di Louis Prima – Sing Sing Sing (With a Swing) – canzoni delle gemelle Kessler (Le sirene siamo noi; Lasciati baciare col Letkiss), Sinatra padre e figlia (Something Stupid), tutte occasioni per le sorellastre di dimostrare le loro capacità di ballerine con molti ruzzoloni, e per la protagonista di accennare a coreografie classiche sulle musiche di Prokofiev.
Dall’armadio escono i personaggi e vi ritornano, e come in tutti gli armadi si trovano appesi anche i vestiti buoni, quelli da indossare alle feste: Cenerentola indossa il primo, bianco, quasi un abito da sposa, e d’incanto ci troviamo a palazzo, dove il timido e impacciato principe balla (ma che fatica!) con lei. Come bambini curiosi, i due si toccano il naso e la pancia (è troppo presto per i baci), ma inesorabile scatta la mezzanotte (e a segnare l’ora del ritorno sono le braccia-lancette di Anastasia e Genoveffa). Maman chiede alle figliole com’è andata, e alla risposta che hanno mancato l’incontro con il principe va su tutte le furie, sbraitando sempre più in napoletano: anche le signore perdono pazienza e affettazione insieme, rivelando il loro basso rango con soluzioni da farsa che tanto fanno ridere gli adulti, in una concitazione ritmico-percussiva che non può non far pensare alla prima matrice letteraria della vicenda, quel cunto del Pentamerone di Basile musicata da Roberto De Simone (La gatta Cenerentola). Ma si sa, le madri devono pensare a maritare le figlie, e così si può sfruttare l’occasione data da un altro ballo, cui segue un altro ancora, perché intanto il principe non riesce a sapere nulla della bella dama che danza con lui lasciandolo sfinito a fine della festa: il Nostro si riprende nutrendosi d’amore, o meglio, di cuori di cioccolato.
Operazione ben riuscita di teatro-danza questa nata dalla collaborazione tra la Factory Compagnia Transadriatica e la compagnia di danza Elektra (Lecce) e la T.I.R. Danza (Modena), in cui gli attori aderiscono ai tipi-personaggi con provata naturalità. Teatro bonbon, dove le luci e i costumi conferiscono il giusto colore modulato sui toni pastello, in cui la musica, i balli, la mimica e il linguaggio contribuiscono alla coerenza e all’equilibrio di una riproposizione originale e innovativa, che risulta godibile a tutte le età, che segue le classiche scansioni e iterazioni narrative delle fiabe ma innestandovi elementi contemporanei e pop senza strizzare l’occhio a inutili richiami all’attualità. Allora, facciamo un altro gioco?