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Quel teatro duro da mangiare per i topi di Hamelin - Hamelin visto da Enrico Fiore controscena.net

ROMA – Sappiamo che la fiaba è un genere letterario derivante dalla tradizione popolare e destinato prevalentemente ai bambini. Ma sappiamo pure che spesso contiene, a parte la famosa morale, riferimenti allegorici a precise realtà culturali, sociali e persino politiche. In tal senso, probabilmente ce ne ha fornito l’esempio più rilevante Giambattista Basile, la cui scrittura di tipo anfibologico (che, cioè, si presta a una doppia interpretazione) nascondeva sotto un’innocua superficie narrativa quanto non poteva dire apertamente per non incorrere nei fulmini della Controriforma.

Ebbene, l’ambizione di «Hamelin» – lo spettacolo che la Factory Compagnia Transadriatica ha presentato al Pelanda Teatro 2 del Mattatoio, nell’ambito del Romaeuropa Festival – è proprio quella di fondere i due livelli della fiaba (nella circostanza, appunto, la celebre «Il pifferaio di Hamelin» compresa nella raccolta «Saghe germaniche» dei Fratelli Grimm), sottolineandone, insieme, sia l’aspetto del racconto in sésia la dimensione dei rimandi all’altro da sé. Tanto è vero che il testo, firmato da Tonio De Nitto insieme con il drammaturgo Riccardo Spagnulo, si offre contemporaneamente in due versioni, una riservata ai bambini e l’altra agli adulti.

Gli spettatori, al massimo sessanta per replica, lo ascoltano attraverso cuffie, non senza che gli adulti possano, a tratti, ascoltare anche la versione riservata ai bambini. Ed è, ovviamente, l’invito per gli spettatori adulti a ritrovare almeno per un momento la sincerità e l’entusiasmo dei bambini e per gli spettatori bambini a orientare quella sincerità e quell’entusiasmo verso l’approdo alla conoscenza del mondo.

Conosciamo tutti la storia raccontata ne «Il pifferaio di Hamelin». Quel personaggio s’impegna a liberare la città dai topi, che vi hanno portato la peste, in cambio di una ricompensa in danaro. E infatti, incantandoli col suono del suo piffero, trascina dietro di sé i topi fino a spingerli ad annegarsi nel fiume Weser. Ma quando va dal borgomastro per riscuotere la somma pattuita, viene brutalmente cacciato via. Sicché si vendica facendo con centotrenta bambini di Hamelin quello che aveva fatto con i topi: li attira dietro di sé suonando il suo magico piffero e sparisce con loro in una caverna.


Fin qui i Fratelli Grimm. Ma si dà il caso che la città di Hamelin esista davvero. Si trova in Bassa Sassonia, nella Germania settentrionale. E nel museo di quella città è esposta ancora oggi la riproduzione di un’antica vetrata della chiesa che raffigura un pifferaio seguito da un gruppo di bambini. E in una targa affissa sulla facciata della cosiddetta «Casa dell’accalappiatopi» si ricorda la misteriosa scomparsa di quei centotrenta bambini. E nella centralissima Bungelosenstrasse, conosciuta come «la via senza tamburi», è vietato suonare, anche in occasione delle feste popolari.

Insomma, s’intrecciano la leggenda e una sia pur remota e nebulosa verità storica. E il testo di De Nitto e Spagnulo finge che in un programma televisivo si dia conto dei risultati di un reportage che ha cercato di risolvere il mistero dei centotrenta bambini di Hamelin scomparsi sulla base dei documenti custoditi negli archivi della città.

Naturalmente, la presunta verità storica in questione resta in ombra. E invece vengono alla ribalta, in piena luce, la sostanza allegorica della fiaba e il suo riscontro nella realtà attuale: a prescindere dall’allusione alla pandemia, qui si afferma, dichiaratamente, l’identificazione fra il pifferaio dei Fratelli Grimm e il teatrante. E che si tratti soprattutto del teatro, è dimostrato già dal fatto che quel pifferaio entra in scena trascinandosi dietro il carretto su cui i comici di strada di un tempo lontano trasportavano i loro averi e la loro attrezzeria: un carretto che, poi, si trasforma in un teatrino dei burattini, ospitando, per giunta, anche il teatro delle ombre. Mentre, per suo conto, il pifferaio non disdegna di concedersi qualche accenno alla prestidigitazione.


Del resto, ecco che cosa dice uno dei topi che infestano Hamelin: «[…] me sto a magnà tutta la città […] e mò me magno sto bel teatrino. Teatrino, mi hai provocato e mò me te magno. Ahia ahia, ammazza, aò… È duro sto teatro, malgrado tutto… resiste ancora!». Ed ecco che cosa, fra l’altro, dicono al pifferaio gli abitanti di Hamelin quando lo cacciano via: «Guitto! Saltimbanco! […] Vattene, idiota, vai a lavorare, sfaticato. Tutti così, voi artisti, volete l’elemosina». Al riguardo, De Nitto, in quanto regista, mette in campo una bella e significante invenzione: l’invettiva contro il pifferaio/teatrante viene pronunciata da un coro che si esprime in tutti i principali dialetti italiani, allo scopo, s’intende, di denunciare la generale disattenzione o sottovalutazione nei confronti del teatro, e di quello impegnato in specie. È nella «caverna» di quel teatro – tanto ci dice De Nitto – che vengono condotti i bambini, perché imparino a passare dal buio delle costrizioni in cui li ingabbiano gli adulti alla luce dell’indipendenza di giudizio. Certo, in questo c’è un po’ d’indulgenza di troppo alla mistica del teatro e alla fede nella sua capacità salvifica. Gravano oggi sul teatro, e non di rado per colpa degli stessi teatranti, problemi tremendi, che ne limitano sensibilmente le potenzialità. Ma, ciò detto, vanno riconosciute allo spettacolo della Factory Compagnia Transadriatica un’apprezzabile compattezza stilistica e a Tonio De Nitto una non meno evidente abilità nel padroneggiare la commistione dei vari linguaggi utilizzati nella messinscena. E assai bravo è Fabio Tinella nel ruolo del pifferaio. Tutto, infine, si scioglie e si esalta nella gioia dei bambini che, dopo aver diligentemente mimato l’utilizzo di strumenti musicali vari a cui li ha invitati il pifferaio, si abbandonano fra loro e con i genitori a un ballo scandito da una straripante allegria. Trasmettono un’immagine di vita, al di là di ogni ostacolo. Ed è per loro l’ultima battuta, rivolta ai genitori: «Quando li riavrete di nuovo con voi, date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del pifferaio di Hamelin».

Enrico Fiore


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