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Il Misantropo visto da Alessandro Toppi su pickwick.it - DI QUEST'AMATO TORMENTO CHIAMATO TEATRO


I personaggi di Molière restano personaggi comici. Ma anche i più clamorosi, torturati dalla nevrosi, dalla malinconia, dalla gelosia, dalla follia sembrano celare qualcosa del loro autore: un'intima aria di rovina, di dissesto, un'ombra densa (Giovanni Macchia)

A Parigi, nel 1666

Non sono giorni facili, quelli del 1666, per Molière. Mentre “agli italiani è concesso di tutto”, mentre con Scaramuccia eremita a loro è concesso di prendere teatralmente alla berlina Dio, la Chiesa, il cielo e la religione, invece da quasi due anni l'opera a cui lui tiene di più (il Tartufo) è oggetto di censura reiterata (e quando gli hanno permesso di metterla in scena, nel novembre del 1665, l'hanno subito cancellata dalla programmazione, come diremmo oggi); da quasi due anni – più di quanto non sia avvenuto in passato – recitare ciò ch'egli vuole davvero recitare è dunque una fatica e, da quasi due anni, questo mestiere – a cui si è votato da quand'era un ragazzino – gli sembra un'impresa non più sostenibile, gli sembra un torto, un peso, “un castigo”. Sarà per questo, dunque, che ora se ne sta spesso da solo, chiuso “in questo piccolo angolo buio” che è diventato il suo studio: a scrivere un'opera nuova – dicono alcuni –; a guardare nel vuoto – dicono altri –; a mormorare meccanicamente, come se stesse provando l'intonazione di una battuta – dicono altri ancora – la frase “Voglio solo stare tranquillo”. E d'altronde: Molière nel 1666 si sente vittima non tanto dei bigotti, dei baciapile sempre a lutto e di tutti gli altri che il teatro lo disprezzano (a questi, da sempre, risponde proprio facendo teatro) quanto di coloro che, attraverso la pratica del governo, il teatro dovrebbero sostenerlo finanziandolo, certo, e consentendogli di essere quello che il teatro può e dev'essere: uno specchio distorto che riflette la verità; un discorso sugli uomini fatto in presenza degli uomini; un gioco allegro fino alle lacrime ma serissimo e, talvolta, crudele. Si sente dunque vittima del Re, che pubblicamente lo loda ma che intanto ha smesso di proteggerlo non consentendogli di ripresentare il Tartufo e si sente vittima del Gran Condé, che invece di aiutarlo gli ha girato la faccia – come suol dirsi – lasciandolo a macerarsi tra il desiderio e l'impossibilità di fare il teatro di cui sente l'urgenza, quello di cui – ne è convinto – avrebbe bisogno Parigi. Lui, Molière, ci ha provato a reagire e lo ha fatto a suo modo tant'è che, a distanza di meno di un anno dalla resa dei primi tre atti del Tartufo e dalla sua lettura completa (avvenuti nel maggio e nell'agosto del 1664), ha offerto al pubblico il Don Giovanni (in prima, il 15 febbraio del 1665) ma il pubblico il Don Giovanni non lo ha capito: non ha capito che quest'opera parla del suo amore per il teatro – che è un “amore profondo”, fatto di “voti sinceri”, di “premure rispettose” e dello “zelo più assiduo” – tant'è che il protagonista del Don Giovanni non è mica un cercagonnelle, un alzasottane, un collezionamutandine – ma quando mai? – bensì è un attore, per giunta è un attore “brechtiano” di un'opera “metateatrale” diranno tre secoli dopo, giacché veste e sveste il suo ruolo – inizia, interrompe e riprende la sua simulazione – quando gli pare e quando gli serve, mostrando al cospetto della platea la consapevolezza della recita, la sua fattura estetica e la sua funzione di ipocrisia-contro-ipocrita. Niente da fare, gli spettatori non hanno compreso: tutti hanno pensato che fosse l'ennesima versione del mito; che fosse un modo per alludere al sesso, magari per far venire i pruriti a qualcuno; che fosse un divertissement mentre invece era “un gesto di sfida, una di quelle sortite la cui audacia sta a dimostrare la vitalità, la forza terribile di disperazione di chi si trova in uno stadio d'assedio” come poi scriverà Cesare Garboli in un libro proprio dedicato al Don Giovanni. Garboli, lui sì che ne capisce: non mi permettete di mettere di nuovo in scena il Tartufo? – non mi permettete di fare il teatro che voglio fare? – e allora rilancio e trascino in assito un personaggio che è un attore e vi mostro quanto la sua vita sia fraintesa, guardata solo in superficie, poco rispettata, quanto sia tollerata nelle chiacchiere ma sia offesa nelle pratiche, nella quotidianità, nell'esercizio concreto. “Di fronte a una criminalità che è l'effetto di un privilegio e dell'esercizio di un potere” Molière – offrendo col Don Giovanni l'immagine di un “teatro mediocre e malato, di un teatro teatrale, di un sotto-teatro” – “denuncia le finzioni di quell'altro teatro”: del teatro della corte, della burocrazia, dei salotti; il teatro dei conta-denari, degli amministratori-a-sbafo e dei rilascia-promesse-a-vuoto: tutta gente che gli sta rendendo quasi impossibile l'esistenza di teatrante. Ma ora? Ora che quella foga si è esaurita, ora che tutta quella rabbia si è condensata in un titolo che è stato a sua volta oggetto di attacchi e di censure, ora che il Don Giovanni è passato Molière come può raccontare questo malessere che invece non gli passa? Come può dire di quanto sia stanco e infelice, di quanto sia irritato e disilluso al punto tale che lui – che non ha mai abbandonato il palcoscenico: neanche quando non aveva di che mangiare, neanche quando si è ammalato e sembrava che non ce la facesse più – ora sente che invece potrebbe farlo, sì, che potrebbe dire addio alle scene, che avrebbe quasi voglia di farla finita, di percorrere il corridoio in senso contrario e andarsene, sentendosi crollare tutto alle spalle? Sono questi i suoi umori in quei giorni; non lo dico io – che nel 1666 non ero ancora nato – ma lo dice a Giovanni Macchia Esprit-Madeleine Poquelin, l'unica figlia di Molière, in un'intervista che la donna gli rilascia in esclusiva nel 1975, cioè duecentocinquantadue anni dopo essere morta, e che Macchia pubblica ne Il silenzio di Molière. Allora ero soltanto una bambina ma “i bambini non dimenticano” – dice Madeleine – e io infatti ricordo “quei suoi momenti di sconforto”, durante i quali anche “la mia presenza lo irritava”. “Stava male”, aggiunge, “aveva scatti improvvisi, terribili, come se covasse un odio contro tutti. Poi si chiudeva in un silenzio totale, passavano alcuni secondi che parevano interminabili – si sarebbe sentita volare una mosca – e infine, mentre io me ne scappavo nella mia stanza”, lui si chiudeva nel suo studio: a mormorare sempre la stessa frase – secondo alcuni –; a guardare nel vuoto – secondo altri –; a scrivere un'opera nuova – per i meglio informati. Lui – che se “sul palcoscenico ribollivano le pentole dei diavoli, vi si sarebbe gettato”; che se “sul palcoscenico bruciavano l'anima, l'avrebbe bruciata”; lui che del “palcoscenico fece la sua vita e la sua morte” – in quei giorni atrabiliari e malinconici del 1666 comprese che solo il palcoscenico lo “avrebbe potuto aiutare a sopportare il male che gli intossicava la vita” e che solo in palcoscenico, dunque, avrebbe potuto raccontare “il suo dolore segreto”: quello provato da un uomo che per tutta l'esistenza “ha adorato un qualcosa” (il teatro) che altri, adesso, gli “stanno trasformando in una condanna”. Fu così che Molière cominciò a mettere mano a Il misantropo: la sua farsa “più autobiografica” secondo Luigi Lunari; l'opera nella quale sfocia “la sua voce di dentro più autentica e amara” per Guido Davico Bonino; il copione nel quale rende “la tragicità sotterranea del suo mondo” di teatrante, alla cui base c'è una vocazione ineliminabile che viene ripetutamente vilipesa dagli “scandali, dalle impurità”, dalle ingiustizie, dalle miserie.



Il teatro è fatto per passione o per soldi e Potere e chi lo fa per soldi e Potere sa benissimo che la tua passione ti farà accettare ogni angheria e compromesso e se ne serve contro di te (Massimiliano Civica)



A Mosca, nel 1929 Da un anno i suoi testi sembrano essersi impantanati, neanche fossero come i giovani che mette in scena Anton Čechov: eppure questi testi sono stati approvati dagli amici più fidati, sono stati accettati dai teatri più importanti della città, eppure adesso se ne stanno lì – in forma di copione, con tanto di assegnazione delle parti già stabilita – sulla scrivania del direttore, a pochi centimetri dai contratti che ha firmato perché siano allestiti. Alcuni addirittura sono stati provati per settimane; lo sa, lo ha visto: ha visto gli attori prendere in cura le sue parole, farle proprie e renderle in maniera simile a come lui aveva pensato dovessero essere dette; ha visto i gesti con cui questi attori hanno accompagnato ogni frase; ha visto farsi come oggettivo il mondo che lui aveva in testa e lì – nella piccola sala, osservando il lavoro che altri facevano su ciò che lui aveva composto – ha capito due cose: che il teatro è la forma, il mezzo e l'occasione principale con cui vuole stare al mondo e che ciò che ha scritto e scrive per il teatro ha un valore, diamine, che c'è della qualità nelle sue opere, che quest'urgenza che sente di dire attraverso il teatro ha un fondamento e che si merita, adesso, di venire alla luce: “Ho bisogno di vedere la luce, ne ho diritto. Foss'anche per poco. L'ho chiesto a me stesso e l'ho domandato a mia moglie, che ha confermato. Ne ho diritto, sì” scrive, a un certo punto, a suo fratello. Eppure... Gli dicono che è tutta colpa della politica, di questo regime che non ha nessun bisogno dei suoi scritti, non ne ha bisogno per procurarsi il consenso che cerca e dunque li censura; qualcun altro accusa invece la burocrazia, altri ancora bisbigliano di invidie e meschinità tutte teatrali mentre i più informati elencano ora leggi, normative e decreti, ora parlano di investimenti culturali deviati, di soldi che mancano, di varchi impossibili da trovare nella programmazione, di date che sono saltate all'improvviso, di altri che hanno la precedenza: verrà anche il tuo turno, sembrano dirgli; non è il momento, non ci sono le circostanze, adesso non possiamo e mi sono accorto che il tuo testo non è quello che ci aspettavamo, non va più bene per il nostro teatro, gli accordi che avevamo non valgono più. “Lascia che te lo dica, fratello caro: non me la passo affatto bene” – scrive quindi in una lettera –, “non ho grandi speranze di riuscita” e “a scanso di miracoli, e i miracoli sono cosa rara, la mia fine è questione di tempo”. Magari esagera ma provate a mettervi nei suoi panni: provate a mettervi nei panni di Bulgakov, a Mosca, nel 1929. I giorni del Turbin sono stati cancellati; de L'appartamento di Zoja neanche a parlarne; L'isola scarlatta è diventata una chimera e, quanto a La fuga, al Teatro d'Arte lo hanno letto, montato e lo hanno offerto in una filata a porte chiuse e poi – senza un motivo chiaro – lo hanno rinviato a data da destinarsi. Provate a mettervi nei panni di un autore che per vivere vuole fare l'autore – e giustamente, direi, visto la bontà di ciò che scrive – ma che non riesce mai ad andare in scena mentre in scena ci vanno certi imbrattacarte da quattro soldi, sempre i soliti, che sono incensati in pubblico ma che in privato, quando finalmente possiamo dirci quello che pensiamo veramente, si rivelano “protetti”, “raccomandati” e “mediocri”. E in aggiunta metteteci pure che – mentre lui cerca disperatamente di fare il suo teatro – il lampadario di casa si è rotto, che il lavabo scorre, che il bagno non funziona, che l'affitto è scaduto da più di un mese e che in dispensa gli sono rimasti solo due pacchi di farina. Sto esagerando io, adesso? Forse, ma provate a rimanere nei panni di Bulgakov ancora per mezza pagina, solo per una sera. Siamo – siete – in un salotto, tenuto in caldo da candele, camino e lampade; intorno avete l'intelligenza teatrale moscovita, riunita per ascoltare Robespierre, un dramma che Fëdor Fëdorovič Raskol'nikov ha appena terminato. Chi è questo Raskol'nikov? Potremmo definirlo un critico (da poco è diventato il direttore della rivista Krasnaja Nov') con ambizioni da drammaturgo (una sua riduzione di Resurrezione di Tolstoj è in programma al Teatro d'Arte). Ebbene: Raskol'nikov legge mentre voi – nei panni di Bulgakov – sedete in quarta fila. Ascoltate e notate nel frattempo la noia che afferra tutti gli altri, badate alle distrazioni che molti si prendono per sfuggire al tedio che produce il testo (una donna conta le frange del vestito, un anziano si guarda incessantemente i palmi delle mani) poi vi colpiscono un uomo che sbadiglia, un altro che sbadiglia, un terzo in preda allo stesso morbo finché la lettura del Roberspierre finisce e tutto questo sonno potenziale viene scosso da un'ovazione immeritata. “Ora tocca ai commenti, giusto? Forza, compagni!” urla il moderatore. Si alza quindi Ivan Bersenev, attore di gran calibro, e dice: “Compagni, abbiamo appena ascoltato quest'opera del nostro Fëdor Fëdorovič. Sarò breve: ne ho sentite di pagine straordinarie in vita mia ma mai – dico mai – nulla che avesse su di me un tale effetto, nulla che mi rivoltasse l'anima e il cervello in questo modo! Ero come stregato... Oggi è un giorno importante” – aggiunge Bersenev aumentando il tono della voce – “e noi ne siamo parte”. Poi, fingendo di tremare, dice: “Vi chiedo scusa ma sono troppo commosso per parlare...” compie un inchino e si risiede, asciugandosi la fronte già asciutta col fazzoletto. Mentre scrosciano gli applausi di alza quindi Aleksandr Jakovlevič Tairov (regista, attore e critico) e prende la parola: “Non è compito facile, compagni, giudicare un'opera come quella che abbiamo appena ascoltato. Sapete, nel corso della vita mi è capitato di dover dire la mia su testi di Shakespeare, Molière, Sofocle, Euripide... eppure, compagni, pur trattandosi di opere meravigliose, sono a noi lontane. Il compagno Fëdor Fëdorovič ha invece preso qualcosa di lontano e lo ha rimaneggiato in modo tale da renderlo vicinissimo!”. “Compagni! Compagni! Compagni!” – tuona tre volte Tairov, come volesse spegnere la fiamma del camino con il fiato – “il Robespierre del nostro diletto Fëdor Fëdorovič farà la felicità di qualunque teatro e di qualunque regista!”. Segue un battimani poderoso. Ecco, io non so voi – nei panni di Bulgakov – cosa avreste fatto ma so (ce lo racconta la moglie nel suo diario; lo ricorda Marietta Čudakova nella biografia che ha dedicato all'autore de Il Maestro e Margherita) cosa fa Bulgakov. Si alza e, dopo aver dato uno sguardo a tutti quegli “adulattori” (così la moglie di Bulgakov definisce i presenti) afferma la sua con spirito critico e onesto: “Dunque... ho ascoltato gli interventi di chi mi ha preceduto e...”. Bulgakov dice quindi di essere dispiaciuto per Tairov e Bersenev perché – che disdetta – a loro non è mai capitato di ascoltare nulla che fosse meglio di questo Robespierre; passa poi all'analisi del testo e fornendo citazioni (ha preso appunti durante la lettura) dimostra quanto il Robespierre suoni male, quanto la sua lingua sia povera, quanto certe frasi gli sembrino ridicole; infine difende Shakespeare, Euripide e Sofocle dal paragone col compagno Fëdor Fëdorovič e – con più foga – dal paragone difende anche Molière, sul cui teatro offre una breve dissertazione: racconta dell'amarezza che si cela sotto la gioia apparente delle farse; del valore autobiografico di alcuni suoi capolavori; di quanto Molière dica della condizione vissuta dai teatranti, oltreché della società del secolo diciassettesimo e della continua menzogna a cui sono soliti gli uomini. Il risultato? Un putiferio... “Alla fine della serata Raskol'nikov” – narra la moglie di Bulgakov – “aveva le vene al collo violacee e uno sguardo pieno d'odio” e intriso di vendetta (e infatti si sarebbe vendicato recensendo negativamente le opere di Bulgakov, viste in prova, contribuendo così a evitarne il debutto). Non so a voi ma a me questa storia ha fatto venire in mente la seconda scena del primo atto de Il misantropo: cosa accade? Oronte si presenta ad Alceste, gli manifesta la sua stima – “per voi ho una stima incredibile” gli dice – e, dopo avergli offerto il suo sostegno per un'eventuale introduzione a corte, gli legge un sonetto “per sentire da voi se faccio bene a renderlo noto al pubblico”. “Io ho il difetto di essere un po' più sincero di quello che è opportuno” lo avverte Alceste ma Oronte lo rassicura: “È proprio quello che chiedo”. E dunque. Oronte declama i suoi versi e mentre Filinte – un amico di Alceste che sa come si sta al mondo – li loda senza misura (“affascinante!”; “con che eleganza è espresso questo concetto!”; “la conclusione è ammirevole!”) Alceste invece ne compie un'analisi severa sentendosi rispondere con insulti e minacce: “Credete di essere tanto intelligente?”, “ma quanta presunzione...”, “vorrei vedere voi a scrivere poesie...”. Oronte – me lo immagino con le vene del collo violacee e lo sguardo pieno d'odio che aveva Raskol'nikov al cospetto di Bulgakov dopo la stroncatura del Robespierre – quindi gira i tacchi ed esce di scena, non prima di averci fatto capire che, proprio come il compagno Fëdor Fëdorovič, tenterà di vendicarsi. Adesso mi chiedo: non è che nel prendere parola durante la serata moscovita Bulgakov si è ricordato de Il misantropo? D'altronde. Da alcune settimane sta lavorando a un testo che dovrebbe chiamarsi Molière e che si chiamerà infine La cabala dei bigotti; il nome “Molière” lo troviamo quindi scritto nei quaderni che risalgono al 1929 e lo troviamo, come un'ossessione, vergato su centinaia di pagine, nei sei anni successivi; Molière è già da tempo per Bulgakov – nel pieno della crisi, nel momento in cui politica e amministrazione gli impediscono di andare in scena – l'altro attraverso il quale confidarsi, il mezzo per dire quello che ha da dire, lo strumento con cui condividere e mettere in mostra ciò che gli sta scorticando l'anima: l'amore assoluto per il teatro e l'impossibilità di vivere questo amore come vorrebbe. “Ve lo do io Molière...” annota nel settembre del 1929 su un taccuino, a ottobre confessa a un amico che ha in mente un testo in cui “si parlerà francese” mentre a novembre dello stesso anno convoca Elena Seergevna (la sua dattilografa, che poi diventerà sua moglie), chiude meticolosamente tutte le porte, serra le finestre perché neanche uno spiffero possa librarsi in strada, porta la donna nello studio, la fa sedere su una poltrona, prende dei fogli e – “dopo avermi costretta a promettere mille volte che avrei mantenuto il segreto” – le legge le prime battute de La cabala dei bigotti. “A scrivere di Molière” – commenta la Čudakova – “è un uomo che ha alle spalle anni di vita teatrale divisa tra desideri e amarezze, un artista che ha misurato le proprie capacità e ha conosciuto le resistenze del mondo esterno”. Il 6 dicembre del 1929 la prima versione de La cabala è pronta; poco prima di Natale ritiene di avere concrete speranze che il testo possa interessare al Teatro d'Arte, Stanislavskij nel frattempo se ne interessa e a gennaio gli fa grandi promesse, a febbraio – non a caso – il regista scrive a Leonidov che “La cabala è interessante” ma a marzo il Comitato Centrale Repertori informa Bulgakov che “La cabala dei bigotti (Molière) non è stato autorizzato”. Credete ch'egli si arrenda? Nonostante sia “sul lastrico” e si consideri “un defunto che respira” – nonostante pensi “come drammaturgo non valgo niente” – continua a lavorarci: nell'aprile del 1930, poi ancora in estate e a settembre, “nel novembre del 1930 il Molière è ancora sulla sua scrivania” racconta la Čudakova, e ancora nel 1931 – a febbraio, ad aprile, “Bulgakov lavora di nuovo a Molière” annota la moglie ad agosto di quell'anno – e a settembre, terminata la revisione, invia una copia del testo a Gorkij perché gli offra un parere. Torna intanto la speranza: il 3 ottobre del 1931 La cabala dei bigotti ottiene l'autorizzazione, tre giorni dopo Bulgakov la propone al Teatro di Prosa di Leningrado e la settimana successiva firma il contratto per un debutto da tenersi a inizio del 1932, con un seguito di repliche il cui numero non è ancora calcolabile ma che sarà certamente cospicuo. “Nel dicembre del 1931 può dunque ancora considerarsi un drammaturgo, proprio grazie al Molière” scrive la Čudakova: passano tre mesi e il 14 marzo del 1932 il Teatro di Prosa di Leningrado gli comunica invece che Molière non andrà in scena e che “l'autore può ritenersi sciolto da ogni vincolo contrattuale”. “Sono stanco”, scrive a questo punto Bulgakov al fratello, “sto da schifo, sono stremato” prosegue, “ho dato il sangue al teatro” e “non ne ricevo niente” gli scrive inoltre e queste parole vanno messe in relazione con quelle che – in una lettera che destina a sette membri del Governo – testimoniano l'irrinunciabilità che comunque prova per il teatro, questa sua amante dalla quale gli sembra di essere ingannato ma alla quale non riesce a dire addio: “Chiedo che mi si trovi un posto come comparsa al Teatro d'Arte di Mosca. Se questo non risultasse possibile, che mi si trovi un posto fisso almeno come servo di scena”: l'alternativa, “per me”, è “la miseria, la strada e la morte”. La cabala dei bigotti è – assieme a Il Maestro e Margherita – l'opera che accompagna effettivamente Bulgakov alla morte: entra nel repertorio del Teatro d'Arte nel 1932, viene trascinata in sala per tutto il 1933 ma il debutto tarda: lo rimandano le pressioni politiche, certe presunte difficoltà amministrative, nuove riforme che influiscono sull'attività teatrale moscovita e le voglie incontentabili di Stanislavskij, che pretende modifiche al testo. Ancora nel dicembre del 1934, con Bulgakov ormai annerito nell'umore e indebolito nel fisico, “al Teatro d'Arte provano Molière” e lo fanno dopo aver scommesso una cena sul fatto che non andrà mai in scena: “Molière: che dire? Stanno provando ma poco e lentamente. E glielo dico in segreto: ci credo poco. Per me è un capitolo chiuso” conferma Bulgakov all'amico Popov. Invece in scena La cabala dei bigotti ci va il 16 febbraio del 1935: il 17 arrivano le prime due stroncature, una terza viene pubblicata il 18, la quarta e la quinta vengono diffuse il 19 e poi il 21, il 24, il 25, il 28 febbraio ulteriori articoli offendono l'opera e l'autore; il 4 marzo il Teatro d'Arte ripropone La cabala ma – giusto il tempo perché Pravda lo bocci (“Grande sfarzo per contenuti falsi”) – e lo spettacolo viene definitivamente cancellato: “La mattina andammo a teatro: Molière non era più in cartellone” ricorda Elena Seergevna. Ma La cabala dei bigotti non è l'unico testo molieriano di Michail Bulgakov: a conferma che l'autore/attore francese era l'altro pensato identico a sé, dal 1933 mette mano anche a una Vita del signor Molière (allora censurato in Russia; leggibile oggi in Italia grazie a Mursia, BUR, Castelvecchi, Garzanti e Mondadori); si tratta di una biografia/romanzo con cui Bulgakov racconta il teatrante, inscindibile dall'uomo: la vocazione, gli scontri con il padre e l'abbandono della casa; l'addio agli agi e al denaro garantiti dal cognome; la nascita della prima compagnia; la fondazione di un piccolo spazio teatrale e il suo fallimento; i debiti, la miseria e i viaggi fatti in provincia, grazie ai quali – mettendo in scena i classici e cominciando ogni tanto a far di suo con la commedia – Molière inizia a essere Molière. E ancora. Le recite presso i signorotti, fatte a perdere; i contratti firmati e poi disdetti; le paghe pattuite e mai riscosse; le repliche tenute in stanze luride, intrise di polvere, nelle quali gocciola quando fuori piove; l'ampliamento della compagine attorale e gli amori, i tradimenti, le liti, le separazioni; le platee piene e gli spalti vuoti, l'accumulo di repliche e i mesi passati senza un ingaggio; i copioni allestiti e poi disfatti, i progetti e la loro impossibilità pratica, le opere pensate e abortite, le ostinazioni e il desiderio ogni tanto di mollare, le rinunce e certi momenti di felicità, la ricerca faticosa del proprio lessico e la comprensione – infine – che non è con la tragedia ma con la farsa ch'egli parlerà al mondo. E il ritorno a Parigi, la conquista della capitale, i trionfi e le polemiche, gli applausi, le invidie, le stroncature e – soprattutto – il teatrante al cospetto del Potere tra concessioni e obblighi, ordini, divieti, attese e rinvii, promesse e discorsi vuoti, censure dirette e indirette, lodi e sorrisi falsi, strette di mano che sembrano catene, la mancanza di un'effettiva libertà. Fino al Tartufo, al Don Giovanni, al Georges Dandin; fino a Il misantropo, L'avaro, Il borghese gentiluomo; fino alla quarta rappresentazione de Il malato immaginario: il corpo che si accascia, a spettacolo finito; il trasporto a casa e il pallore, le occhiaie, il sudore, gli spasmi, gli sputi di sangue che arrossano la bianchezza del lenzuolo. “Così il mio eroe fu inghiottito dalla terra di Parigi e vi si dissolse” scrive Bulgakov nell'ultima pagina del libro; “così il teatro mi sta fagocitando: io mi dissolvo e non esisto più”, scrisse al fratello: mentre impedivano alle sue opere di vivere e lui provava a raccontarlo rispecchiandosi in Molière.

Vieni a ballare in Puglia, Puglia, Puglia, tremulo come una foglia, foglia, foglia. Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru perché può capitare che si stacchi e venga giù (Caparezza)

In Puglia, da più di un anno Da più di un anno in Puglia si assiste alla promozione del Piano strategico per la Cultura, la cui espressione principale è l'acronimo PIIIL (Prodotto Impresa Innovazione Identità Lavoro). Da più di un anno il presidente della Regione Michele Emiliano, l'assessore con delega all'Industria turistica e culturale e alla Gestione dei beni culturali Loredana Capone e il direttore del Dipartimento regionale relativo al turismo e all'economia culturale Aldo Patruno dichiarano nei documenti programmatici, nei contenuti redatti per il sito istituzionale, in apposite conferenze stampa e negli incontri con uomini e donne di settore che in Puglia è in atto “una rigenerazione di sistema” che sta ridefinendo le possibilità creative di chi opera in loco. Da più di un anno la Puglia nei loro discorsi è un cantiere meraviglioso, all'interno del quale si lavora quotidianamente, tutti assieme e in accordo, beneficiando tra l'altro di una spesa “che non ha precedenti nella storia”, che è “incomparabile rispetto a quella di ogni altra regione italiana” e che, a volerla mettere a bilancio, pare quasi “incalcolabile”. Radiose prospettive vengono dunque raccontate da più di un anno, trovando cassa di risonanza nelle pagine dei quotidiani (nazionali e locali) su cui mi è capitato di leggere di “fermento in Puglia”, di “nuova rivoluzione pugliese” e di “Puglia votata all'economia della felicità”. Questo racconto è affascinante e alterna la calda poesia dell'esposizione di una prassi – i dialoghi con gli artisti e i cittadini; le lunghe riunioni colme di proposte, di entusiasmi e di rilanci; l'attenzione riservata ai più deboli e a chi abita in zone degradate e la centralità data alla bellezza, alla libertà produttiva, finanche alla provocazione espressiva: “voi dovete provocare il Potere” – con la fredda prosa numerica costituita dalle cifre che servono a rendicontare, ogni volta, a quanto ammonti l'investimento delle istituzioni. Capita così di ascoltare espressioni quali “bisogna favorire i processi di innovazione”, “occorre valorizzare la filiera dell'arte”, “è necessario stimolare il protagonismo delle nuove generazioni” e nel contempo – detto che “le risorse non sono né saranno mai un problema” – far di conto mettendo in colonna i “quattrocento milioni di euro investiti per la cultura”, tra i quali i “due milioni di euro messi a bando per spettacoli che siano parte integrante dell'identità pugliese”, il “massiccio stanziamento” dedicato “all'innovazione degli spazi teatrali” e “i settantacinque milioni del triennio 2017/2019” – “pari a venticinque milioni di euro l'anno” – dei quali m'interessano in particolare i “sei milioni destinati a finanziare gli attrattori-teatri” (cioè i monumenti e i percorsi naturalistici nei quali i teatranti sono invitati a “dare spettacolo”: le masserie, i castelli e le cattedrali, le chiese, le dune costiere e i parchi archeologici, le distese di olivi, la Daunia, la Murgia, l'Alto e il Basso Salento); “i quattro milioni di euro per progetti triennali di attività culturali individuati a esito di una complessa attività di selezione qualitativa” e “i quattordici milioni per i progetti di eccellenza di spettacoli dal vivo”. Si tratta, insomma, di un bengodi offerto ai teatranti in forma di “azione di governo” ed è forse per questo che il racconto di tale bengodi alterna passaggi neorealistico-proletari (il PIIIL che sottrae il pubblico “alla noia, all'inedia, all'ignoranza” e libera gli artisti dall'incertezza lavorativa, strappandoli dal “precariato, dal sommerso e dal nero”) a vette narrative che hanno del para-miracoloso: “Può un'utopia farsi concreta? Sì” afferma Loredana Capone, ad esempio; “La Puglia” è diventato “il luogo nel quale andare a imparare se stessi, il mondo e il futuro” dice invece Massimiliano Tonelli, tra i consulenti esterni della Regione; “la Puglia” – insiste – è il luogo in cui sta avvenendo “la deformattazione delle categorie obsolete del Novecento” e in cui “politica, arte, cultura, impresa, artigianato, commercio e casalinghe” sono “uniti nella lotta per la felicità interna lorda”. Tuttavia. In una lettera aperta Michelangelo Campanale racconta che le residenze pugliesi – tra le più interessanti innovazioni recenti del teatro italiano – sono state private “di un sostegno pubblico dedicato”, descrive quindi la situazione degli operatori, “che sono in gravissima difficoltà” e che fanno fatica a “progettare” e “immaginare” tanto il domani quanto il prossimo spettacolo, e ricorda che le condizioni reali di gran parte della teatralità locale sono tali che “il posto di lavoro dei dipendenti” è “a forte rischio”. Gaetano Colella, Enrico Messina e Daria Paoletta in uno scritto a sei mani aggiungono che il teatro pugliese al tempo del PIIIL è preda di un “disorientamento culturale” perché a loro – ai quali, in passato, è stato chiesto di far crescere il livello qualitativo della propria espressione artistica e, nel contempo, di occuparsi delle ferite e dei silenzi, delle emergenze e dei vuoti che caratterizzano i luoghi nei quali hanno fatto residenza, tentando di stabilire con i contesti antropo-urbani una relazione vitale ma lenta e sofferta, incerta e graduale com'è ogni relazione tra gli uomini – adesso gli si chiede di “diventare imprese” che si occupano sì degli stessi territori ma “in chiave turistica”. Non solo: gli si chiede di rendere la propria prassi di lavoro assorbente e porosa rispetto alle priorità consumistiche della Regione, che è interessata alla “destagionalizzazione turistica”, alla “promozione del patrimonio architettonico” e alla crescita del volume d'affari del terziario. “È davvero questo” – si chiedono – “il teatro che sognavamo di fare? È per questo che abbiamo lavorato?”. C.Re.S.Co Puglia invece racconta di un triennio perduto tra attese dei bandi, ritardi nella pubblicazione delle graduatorie e pagamenti che sarebbero dovuti avvenire e che non avvengono. Racconta di realtà costrette a chiedere in banca prestiti per non interrompere i servizi offerti ai cittadini – così indebitandosi – e di teatranti indotti ad anticipare di tasca propria i contributi che spettano alla Regione. Racconta di impegni traditi, di progetti modificati in corso d'opera, di deresponsabilizzazione istituzionale davanti a una condizione diffusa di difficoltà e di miseria. C.Re.S.Co. parla di uomini e donne il cui lavoro viene quotidianamente mortificato dalle condizioni in cui viene svolto; uomini e donne che sottraggono alle proprie finanze private – ai soldi destinati all'acquisto delle scarpe per i figli – gli spiccioli con cui pagare lo stipendio a un collaboratore che doveva essere retribuito col denaro proveniente da una Regione che risulta morosa da un biennio; si tratta di uomini e donne che hanno dovuto pregare i loro compagni di recita di attendere ancora un mese per ricevere la paga, che hanno dovuto chiamare a casa e chiedere ai propri genitori (probabilmente vergognandosene) un prestito per terminare una tournée, per riaprire le porte del teatro, per completare il (povero) allestimento dello spettacolo che hanno in mente o non interrompere un festival che, anno dopo anno, sta cercando di parlare alla microcomunità di riferimento. Sono uomini e donne che vantano crediti ma si sentono in debito, che provano un senso di fallimento che non meritano di provare (sono bravi, lo hanno dimostrato in Puglia e altrove) e che stanno tentando di continuare a rispettare se stessi, la propria vocazione e gli impegni che hanno preso, ma che ora sono stanchi, si sentono da schifo, sono quasi stremati e che ancora di più si sentono stanchi e stremati guardando anche oltre-regione: osservando un mercato italiano del teatro nel quale il Ministero – a quelli che fanno parte della Corte, direbbe Alceste – finanzia il debito, lo spreco e l'aumento delle spese perché mettano in scena e si scambino tra loro (pensate alle programmazioni di certi teatri Nazionali) paccottiglia puramente intrattenitiva, magari firmata dal direttore di turno, che di mestiere fa pure il regista: ecco un grande classico – mettiamo un'opera di Molière – in forma vanagloriosa, fintomodernizzata ma in realtà decrepita e decadente: sul fondo, ad esempio, ci sono grandi schermi per le proiezioni video degli interpreti; tutt'intorno stanno i sontuosi arredi scenografici mentre al centro del palco, rigorosamente in piena luce, troneggia la prima attrice: boriosa, piena di sé più che del personaggio, tutta tecnica ma niente cuore.



Quante volte lui mette in scena, senza dichiararlo apertamente, la fine del teatro, il termine di ogni recita (Roberto De Monticelli)



A Novoli, in teatro Forse il fulcro de Il misantropo non è il misantropo: è Célimène, invece, ma Célimène chi è? Di lei sappiamo che “possiede l'arte di piacere” e infatti piace: gli ammiratori fanno la fila alla sua porta, ognuno attende il turno e poi, neanche fosse uno spettatore con in mano il suo biglietto, viene accompagnato in salotto da un annuncia-presenze che si comporta come si comporta una maschera in platea: questo è il posto, signore, prego si accomodi. Sa “mentire e sa “fare buon viso” Célimène, “conosce l'arte di fingere”, possiede “doppiezza d'animo” e “inganna”, usa talvolta “trucchi grossolani”, di certo “finge i sentimenti che dimostra”; è “un'ingannevole apparenza” dicono di lei, “non è come sembra” ancora dicono e – dopo aver ricordato che “oltre ad essere bugiarda” è anche “sfrontata” – aggiungono che il suo volto non è un volto ma una maschera: “Voglio smascherarla” non a caso dirà Alceste. D'altronde. A lei chiedono continuamente di sembrare, di mostrare, di far(si) vedere: “Vogliamo proprio vedere come vi giustificate” le dirà ad esempio Acaste, invitandola in questo modo a recitare. E lei recita – infatti – e mima, si immedesima e richiama alla memoria, hic et nunc. Nell'atto secondo, scena sesta – ad esempio – Clitandro e Acaste, a turno e per ben sette volte, le chiedono di esibirsi nell'interpretazione di uomini e donne (Cleante, Damone, Timante, Gerardo, Belisa, Andraste, Cleone) che appartengono alla buona società e di cui lei veste e sveste le forme come fossero altrettanti ruoli per un'attrice: fungono da innesco alla mimesi quindi, Acate e Clitandro, tanto quanto funge da innesco alla mimesi Alceste – nel quarto atto – quando le dice “vediamo con che faccia sostenete una menzogna tanto evidente” inducendola, appunto, alla menzogna: la lettera che ho scritto è per una donna, ve lo assicuro; io vi amo; non dovreste dubitare di me. Célimène dunque è un'attrice (sono tirate da attrice i suoi monologhi) anzi dico di più: Célimène è il teatro tant'è che ne Il misantropo l'amore che Alceste prova per lei è fatto della stessa sostanza di cui è fatto l'amore che ha portato Molière a scegliere il teatro. “So bene che al cuore non si comanda”, “il mio cuore brucia e il mio amore è di un'intensità inimmaginabile: nessuno, signora, ha mai amato come amo io” le dice Alceste e nulla – nessun fatto e nessun consiglio datogli da alcuno (amici, parenti, uomini che lo stimano, altre donne che lo desiderano) – riesce a distoglierlo, a fargli cambiare idea, a modificare il suo destino: Alceste – di Célimène (Molière, del teatro) – ne vede i difetti, gli inganni, la meschinità mortificante ma non abbandona i suoi propositi, non rinuncia alle sue voglie, non riesce a dire addio e così “continuo a bere, nei vostri occhi, questo veleno che mi uccide”. “La mia anima si abbandona dunque a voi” giacché è “in voi che trovo tutto” e per quanto “vi detesti” io di voi – di te – non riesco a fare a meno. L'amore di Alceste (quello di Molière) è quindi una fatica, è come un malanno, è una scelta irragionevole ed è “un sacrificio” che sta spingendo ormai “fino all'estremo limite”: finché può, finché resiste. “Diamine, dovevo proprio innamorarvi di voi!” prorompe perciò nell'atto secondo, scena prima, non appena incontra colei che ama: leggeteci in questa frase la disperazione che ha provato Molière, che ha provato Bulgakov e che prova ogni teatrante che – nonostante le cose non vadano come dovrebbero – non riesce a rinunciare a questo mestiere che, per loro, non è solo un mestiere. Dunque. Ammesso che Célimène sia il teatro e che Alceste sia un amante del teatro tutti gli altri chi sono? Penso che Oronte, Éliante, Clitandro, Acaste ed Arsinoé rappresentino il contesto, variamente corrotto, che sta rendendo il teatro anch'esso ormai corrotto: in loro c'è qualcosa – a un tempo – dei presunti esperti del Ministero o della Regione, della Commissione Prosa, degli assessori comunali, dei direttori dei teatri Nazionali e di certi amici/artisti dei direttori che nei teatri Nazionali vanno di continuo in scena; in loro c'è tuttavia qualcosa anche di noi che ce ne stiamo in platea recitando il nostro ruolo di critici o sedendo in poltrona come spettatori: d'altronde quando Alceste dice che “al giorno d'oggi ci sono lodi per tutti”, che tutti “affoghiamo negli elogi”, che non c'è più distinzione di merito e che pure il suo cameriere “è citato dalla Gazzetta” di chi sta parlando se non di noi che scriviamo recensioni, magari dopo aver camminato sottobraccio con gli artisti che dobbiamo recensire? E quando Acaste afferma di sé che riesce a “dare giudizi anche senza aver studiato” e che “sui banchi del teatro” fa “il competente” sentenziando e facendo “un gran baccano in tutti i punti” dello spettacolo che ritiene “belli” non sta forse descrivendo uno spettatore-ridotto-a-claque-acritica, che ormai applaude in automatico, senza consapevolezza né giudizio, senza fare differenza tra ciò che davvero merita e ciò che non meritava? In tal senso l'atto secondo, scena seconda, de Il misantropo – in cui Célimène mima e calca i personaggi facendone macchietta – è la rappresentazione crudele (perché veritiera) di una società che dal teatro vuole solo un intrattenimento e di un teatro che alla società, di sé, ormai da solo uno spettacolo fatto di “smancerie”: “il vostro rimprovero si rivolga alla signora” – cioè al teatro – dice Clitandro ad Alceste; “no, è colpa vostra” gli risponde quest'ultimo: “sono i vostri sorrisi che muovono il suo spirito” e quel “suo talento satirico è alimentato dagli incensi della vostra adulazione”; “il suo animo” – afferma infine – non sarebbe ridotto così “se ricevesse meno applausi”. La mia impressione è che tutto questo costituisca il nerbo de Il misantropo di Tonio De Nitto e che dunque, nel metterlo in scena, De Nitto da un lato ci offra i lembi decrepiti di una mascherata degna di un Nazionale e, dall'altro, renda la rappresentazione dolorosa di un uomo che ama il teatro e che cerca di strapparlo vanamente dalle grinfie di chi ne ha guastato i principi, gli atteggiamenti, la quotidianità. Perciò di questo Misantropo non mi colpisce l'adattamento drammaturgico (caratterizzato da volgarizzazioni – “minchione”, “è uno stronzo”, “vaffanculo”, “versi di merda” – e attualizzazioni – il riferimento ai “partiti”, ai “giornali”, ai “ministri”, ai “sottosegretari” e ai “direttori di qualcosa” che sento ma di cui il testo potrebbe anche fare a meno) né la dilatazione di certi momenti (ho la sensazione che alcuni dialoghi siano lenti ma, d'altronde, Il misantropo è forse l'opera di Molière in cui accade fisicamente di meno – si parla tanto e vi si agisce poco – e gli attori che vedo stasera recitano una secca da festival dopo aver montato le scene per tutto il pomeriggio: occorre tenerlo presente) mentre mi colpisce il lavoro basato sull'esagerazione della recita e sull'accumulo evidente di falsume. Tutto, in questo Misantropo, vi concorre. Vi concorrono gli abiti contraddistinti da pizzi, bottoni, nastri e braghe rigonfie; il belletto (il bianco sul volto, il rossetto alle labbra, i tondini rossi alle guance, i nei finti e le basette dipinte); le parrucche candido-cotonate e a boccoli; il lampadario a dodici luci, che si accende e si spegne segnalando i momenti in cui si finge e quelli in cui ci si confessa veramente. Vi concorrono il divano posizionato frontalmente, a favore di platea, e l'utilizzo del microfono ad asta, dei rumori fuori-scena e delle luci che sottolineano cromaticamente i diversi momenti dell'opera. Vi concorrono la parrucca che Acaste si toglie in un momento di sincerità; le dita che ostentatamente Alceste si infila nelle orecchie per non sentire i complimenti che Filinte porge alla poesia di Oronte; i movimenti da carillon a cui, a un certo punto, dà forma Célimène, ormai giunta alla fine della sua recita: poi si toglie anch'ella la parrucca, lascia cadere gli orecchini, si specchia un'ultima volta ed esce di scena camminando verso sinistra e cioè verso il lato opposto rispetto a quello da cui è giunta all'inizio, lì dove c'è il camerino al quale di tanto in tanto ritornava e nel quale – da prim'ancora che Il misantropo avesse inizio – ha atteso che giungesse il suo turno per entrare (per questo Alceste pronuncia le battute del primo atto che la riguardano scrutando oltre quinta, proprio verso destra). Concorrono all'esagerazione della recita le pose statuarie e i gesti eccessivi (il desiderio sessuale di Arsinoé che si tramuta in un bacio con tanto di coscia alzata), i passi di danza e le parti cantate (parole cioè dette in maniera innaturale); vi concorrono le coreografie di gruppo (in cinque, ad esempio, presso il divano e, non a caso, Filinte ed Éliante se ne stanno in piedi, dietro lo schienale: sono, infatti, già la coppia che diverranno nel quinto atto); certe espressioni del viso (Célimène che in un moto di rabbia dice ad Alceste “non me ne importa nulla di quello che pensi” poi si volta e riadorna il volto con un sorriso manierato); le frasi rivolte agli spettatori o accompagnate da un gesto che indica la platea di questa sera (“vedo intorno a me”, “fa un regalo al tuo pubblico”, “hai tutta la platea dalla tua parte”); la denotazione fisica di una frase (Oronte che entra in scena già tendendo le braccia verso Alceste, così rendendo una precedente battuta di Filinte: “quando uno vi viene incontro e vi abbraccia tutto festevole...”; l'occhiata di Arsinoé alla patta dei pantaloni di Alceste quando accenna alle sue qualità; lo sguardo che Alceste dà al microfono al quale Oronte ha detto i suoi versi, quando quest'ultimo chiede: “Cos'è che non va nella mia poesia?”). Vi concorre l'uso che De Nitto compie dello spettatore interno: giacché nel suo Misantropo si recita, c'è sempre qualcuno che fa da pubblico (quando Alceste e Filinte discutono del processo; quando Célimène descrive Arsinoé; quando Eliante e Filinte tessono le lodi di Alceste). Vi concorre questa grande cornice barocca che funge da specchio opaco e distorto del reale, da policromatica tappezzeria molieriana (Molière nacque figlio di tappezzieri) e funge da parete di fondo, da retrocamera che moltiplica le possibilità visive e da rettangolo proiettivo: vi compaiono i personaggi de Il misantropo – tranne Alceste che, essendo una personificazione di Molière, non può che starsene “fuori dal quadro”, come sempre sta Molière, a detta di Giovanni Macchia, quando si rappresenta in un'opera. Queste figure che appaiono e scompaiono sono delle ossessioni della mente, forse; forse sono un rigurgito anticipatorio della trama e la messa in mostra di un teatro che cita se stesso; forse sono una coniugazione del testo poiché a Célimène – quando recita – dicono: “È meraviglioso come sapete dipingere le persone”; “questo è il suo ritratto fatto e finito”. Ritratti, dunque, e per questo messi in cornice. E perché Arsinoé ha così tanto belletto sul volto mentre Éliante non ne ha proprio? La mia idea è che così si mostra la diversa propensione all'ipocrisia delle due donne: falsissima è infatti la prima; spesso sincera la seconda (tanto quanto Alceste, anch'egli senza belletto). E perché Filinte ed Éliante, nell'abbandonare Il misantropo, indossano abiti contemporanei? Perché non hanno più bisogno di rendere un ruolo, di tenersi addosso un costume, di perseverare nella farsa. Sono liberi, loro, di andarsene altrove; sono liberi, finalmente, da ogni teatro.


Non si può più tornare indietro (Luigi Pirandello)


A Novoli, infine, dopo il crollo A Célimène, giunti alla fine de Il misantropo, Alceste dice “vieni via con me”, operiamo uno scisma, fuggiamo da tutto e da tutti, andiamo ad abitare il nulla; ce ne staremo lì, da soli, a vivere di noi. Si tratta tuttavia di una richiesta impossibile – tanto quanto quella di smettere di dire bugie (lei è fatta di bugie; la menzogna è il suo modo di dire la verità). Célimène non può fare a meno del resto del mondo semplicemente perché – senza il resto del mondo – il teatro non ha senso: “rinunciarvi” significherebbe per lei rinunciare a esistere, significherebbe morire. In questo somiglia a Ilse de I giganti della montagna: mentre la compagnia vorrebbe starsene alla Villa della Scalogna e lì dilettarsi coi fantasmi, coi miracoli, con le assurdità chimeriche e fantoccesche (usufruendo delle meraviglie contenute nell'arsenale delle apparizioni, che nulla hanno in comune con la materialità miserrima di cui è fatto il teatro) la contessa invece si ostina a voler andare verso il pubblico, foss'anche il peggiore tra tutti i pubblici: questo perché lei sa che il teatro è contatto umano ed è compresenza, confronto, sguardo reciproco. “Cotrone e il mondo magico degli scalognati non costituiscono una soluzione” – scrive non a caso Claudio Vicentini in Pirandello, il disagio del teatro – “La compagnia della contessa, quindi, non ha alcuna scelta da compiere o meglio: si trova di fronte a una scelta obbligata. Ciò che infatti Cotrone chiede è né più né meno che smettere di fare teatro. Mentre invece l'unica possibilità di continuare sta nell'affrontare i problemi, le difficoltà, le circostanze concrete e le caratteristiche storiche della propria epoca. Sta nell'incontro con i giganti della montagna”. Alla fine de Il misantropo di Tonio De Nitto il palco è un rudere e lo domina un cumulo di macerie: dalla cornice pende un ramo che fungeva da decoro; per terra giace una parrucca; il lampadario ha ceduto e adesso dondola, sfiorando il legno dell'assito; il piede anteriore destro del divano si è piegato e ovunque c'è polvere, c'è calce, sporcizia. Sembrano andati tutti via fatta eccezione per un ingobbito Clitandro che, di ritorno in penombra, domina la scena facendone una pedana buona per il suo (vecchio ed asinesco) trastullo personale. Il buio, lo stridio di una struttura che continua a indebolirsi, poi il tonfo sonoro con cui percepiamo il crollo definitivo. Il teatro (nazionale) si disfa cedendo alle sue stesse crepe. E Alceste? Mi volto a guardare a destra e lo scorgo nel corridoio, a mezza sala: non è ancora definitivamente uscito. Anche lui, che fin dall'inizio sente “l'impulso di fuggire” e che a Célimène ha proposto solo due minuti fa “il deserto”, evidentemente sa che la risposta non è andarsene ma restare e – come per la compagnia della contessa – trovare il modo per riparlare con il pubblico. Nel 1666 Molière non abbandonò il teatro ma continuò ad andare in scena e lo fece finché un accesso di tosse non gli sfondò il petto, costringendolo a lasciare in fretta e furia il camerino. Nel 1929 – e ancora negli anni seguenti e fino all'ultimo giorno – Bulgakov non smise di scrivere né Il Maestro e Margherita (benché conscio che non lo avrebbe mai pubblicato) né altre drammaturgie per la scena. Jouvet, terminate le bombe sulla Francia, riprese le sue prove; Eduardo – offeso dall'ostilità di Achille Lauro – non interruppe di certo le sue repliche e Strehler, che di continuo ha allestito il suo esilio dal teatro (la bacchetta di Prospero; il sipario di ferro che stritola la carretta dei comici dopo l'ultima scena de I giganti della montagna; il Riccardo II, detronizzato, che se ne sta con indosso una tunica da pazzo; il Lear che si allontana verso il fondo e, prima di sparire, compie un gesto estremo al pubblico) ha insistito con la regia finché ne ha avuto le forze. L'ultima battuta de Il misantropo la pronuncia Filinte che, rivolto ad Éliante, dice: “Facciamo di tutto perché non metta in pratica quel che ha in animo di fare”. In chiusura, quindi, non c'è un addio definitivo. Per questo forse l'Alceste di De Nitto se ne sta in mezzo alla sala, stasera, qui a Novoli. Perché sa che l'unica risposta è insistere e “affrontare i problemi, le difficoltà, le circostanze concrete e le caratteristiche storiche della propria epoca”: perché sa che l'unica vera possibilità per un teatrante sta nel continuare a cercare − nonostante tutto − l'incontro con i giganti.


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