Tonio De Nitto e Daniel Gol @ teatroescuola - intervista a cura di Omar Manini
In questi giorni, confusi sul nostro presente e non di meno sul nostro futuro, ho avuto il piacere di scambiare (in momenti diversi) alcune opinioni sul fare teatro e sull’essere teatro con due grandi autori/registi del panorama italiano, Tonio De Nitto e Daniel Gol. E ho deciso di porgli le stesse domande per mettere a confronto due punti di vista illuminati e illuminanti. Ne è uscito il piacere della conversazione con due splendide sensibilità artistiche e umane.
Come ti descriveresti?
T. D. N.: Aiuto! Per tutti sono Tonio, un appassionato di teatro. Da ragazzino ho iniziato a lavorare con i Cantieri Teatrali Koreja di Lecce e ci sono rimasto per oltre dieci anni. Lì mi sono formato a tutto tondo, sia nella veste artistica che organizzativa, anche grazie ad una serie di stage e workshop con grandi maestri. Una volta capita la mia vocazione ho iniziato a lavorare per i miei progetti personali e, alla fine, ho scelto di staccarmi per mettere a fuoco le mie idee e in-seguire alcuni maestri speciali come Arturo Cirillo. Poi, con alcuni compagni, cercando di cambiare alcune dinamiche che non ci andavano a genio, abbiamo fondato la nostra compagnia, Factory Compagnia Transadriatica, che quest’anno compie dieci anni. Il primo spettacolo, un progetto in collaborazione con i Balcani, è stato un successo, ha girato a livello internazionale e ora eccomi qui…
D. G.: Sono un regista teatrale, ma come mi descriverei? Non lo so, devo? Io vorrei non descrivermi mai, vorrei non essere in grado di farlo perché almeno mi tengo aperte molte opzioni… (ride, nda). Anche perché sono un ebreo, omosessuale e quindi sono cresciuto nel ghetto ebraico, sono andato alla scuola ebraica di Milano da quando sono nato e, finite le scuole, mi hanno detto che dovevo stare nei ghetti gay… locali gay, arci gay… sono passato da un tesseramento all’altro e, ad un certo punto, mi sono levato da tutti questi circuiti, quindi ho un po’ di intolleranza verso le definizioni… ecco, per fortuna non so più descrivermi, sono guarito! (risata fragorosa, nda).
Avete contribuito a fondare dal nulla le vostre compagnie – Factory Compagnia Transadriatica e Teatro Distinto – che da anni esprimono la vostra idea di teatro. I vostri obiettivi iniziali sono stati raggiunti?
T. D. N.: L’obiettivo iniziale era quello di fare della nostra passione un lavoro professionale, aiutando a dare la giusta dignità lavorativa a tutti i nostri compagni di viaggio. E, pian piano, l’abbiamo raggiunto riuscendo anche a garantire le paghe alle prove che spesso non vengono neanche considerate! Poi abbiamo ampliato molto le nostre competenze, dalla produzione di spettacoli destinati al pubblico della prosa, al teatro per l’infanzia, al tout public. Siamo diventati residenza teatrale e promuoviamo il teatro sul territorio, credendo che l’incontro sia essenziale per conoscere e capire. Non dico che queste cose siano state completamente raggiunte perché raggiungere qualcosa mi sembra sempre collegato al “sedersi”, all’accontentarsi… e noi, da artisti, siamo sempre inquieti, il nostro obiettivo si sposta man mano che ci avviciniamo ed è un bene perché questo ci allena a non schermare il flusso creativo! Flusso che si nutre proprio del nostro non essere mai sazi. Ed è il destino stesso degli spettacoli che iniziano in un modo e col tempo svelano, cambiano,… . Ora, dopo tanti classici, vorremmo affrontare la drammaturgia contemporanea.
D. G.: Noi abbiamo anche superato le nostre prime aspettative! Eravamo giovani con molti sogni e poche capacità imprenditoriali e l’associazione era nata con l’idea di realizzare laboratori, progetti formativi per l’infanzia e la gioventù e l’abbiamo fatto su ampia scala, con il coinvolgimento di numerosissime realtà sociali. Molto presto abbiamo poi iniziato a produrre spettacoli con ottimi lavori che continuano a girare tutto il mondo. Alcuni anni fa abbiamo ristrutturato la nostra realtà alzando il tiro e adesso ci ritroviamo in una seconda vita, una rinascita, con nuovi obiettivi che partono dagli ingaggi al Lincoln Center di New York, allo Schauburg di Monaco di Baviera e molto altro, tra cui uno spettacolo ironico e dissacrante sulla vita dal titolo “L’amore capovolto”.
Mettete sempre in scena gli opposti, le distanze, i contrasti. E la ricerca di una comunicazione tra questi. Ma che ruolo riveste la parola?
T. D. N.: Noi abbiamo fondato il nostro teatro per adulti sui classici e, quindi, sulla parola scritta da grandi autori. Essa aveva un ruolo fondamentale, affiancata alla nostra fisicità. Nel teatro d’infanzia abbiamo spesso abbandonato la parola in virtù di altre scelte comunicative come suoni, un alfabeto fisico diretto e universale,… e se usiamo le parole non vogliamo che diventino didascalie, ma che esprimano un punto di vista.
D. G.: Per noi è consuetudine fare spettacoli senza parole, un teatro-danza dove si preferisce l’immagine, il movimento al testo. Questo sin dall’inizio della nostra avventura artistica perché ho sempre sentito la parola come fuorviante e poco rappresentativa di quello che volevo dire. La trovavo riduttiva rispetto alle azioni, ai gesti, ai movimenti, alle sequenze sceniche. Quindi mi sono sempre mosso sulle musiche di sottofondo anche perché, volendo parlare ai giovanissimi, mi sono accorto che i bambini si annoiano quando gli attori parlano tanto! Loro sono molto educati, fanno finta di niente, ma magari si girano, si distraggono… invece quando ci sono lavori basati su movimento, danza, oggetto, il bambino è rapito perché l’immagine gli arriva più forte. Il mio teatro ricerca l’immagine che veicola messaggi, accende riflessioni, apre finestre sull’immaginario del bambino e dell’adulto.
Incontro e conoscenza tra diversi. I vostri spettacoli sono metafore del teatro stesso e della vita?
T. D. N.: Sicuramente. Il teatro è un modo di sublimare la vita, le nostre ossessioni e manie, cogliendola negli aspetti non mimetici. Sicuramente, attraverso il teatro, riconosciamo degli aspetti del nostro modo di essere e cerchiamo di lenirli e trarne delle riflessioni. In questo, l’incontro dei temi è fondamentale e lo è di più quello con gli spettatori.
D. G.: Certo, dell’intera esistenza! Lo spettatore incontra gli autori e gli attori e questi ultimi incontrano il pubblico, che è sempre diverso ed è una specie di grande gigante che respira all’unisono. Ed è un incontro anche dentro noi stessi, con l’altro sé, con le proprie parti, con la diversità, tra quotidiano e immaginario che prendono forma dentro il teatro.
Nei vostri lavori le parentesi leggere vengono contrapposte a tematiche alquanto difficili come il dolore, il distacco,… in che modo è giusto o sbagliato mostrare ai ragazzi il lato difficile della vita?
T. D. N.: Più che giusto, credo sia fondamentale. Molto spesso siamo stati viziati perché ci hanno presentato il teatro come puro intrattenimento che calma, anziché sollecitare interrogativi. Per noi è fondamentale partire da questo, aprire interrogativi e, per fare ciò, abbiamo sempre indagato aspetti un po’ “bislacchi” della realtà, oppure dissacrato le coordinate canoniche di personaggi e opere ben riconosciute a cui siamo stati abituati. L’infanzia si nutre di questi temi con la leggerezza non edulcorata del nostro stile, fatto di linguaggi vari e mescolati, di fisicità.
D. G.: È sbagliatissimo non permettere loro di parlare di morte, di elaborarla, di piangerla, di sviscerarla. Purtroppo viviamo in una civiltà dove la morte è chiusa fuori e dove i bambini non devono vederla. Ma il bambino nasce con dei lutti perché sente la perdita del bis-nonno e, anche se non la dichiara, non sa dove mettere questa perdita, non sa come con tenerla e questo genera delle grandi ansie. Il genitore lo protegge, a scuola non c’è il tempo per farlo, poi c’è il tempo del gioco… Nei nostri laboratori propongo spesso degli esercizi in cui si elaborano il dolore, la rabbia e la perdita… i bambini soffrono, ma la lezione successiva corrono in teatro e mi chiedono “facciamo ancora il gioco in cui piangiamo?”. Se tu non hai paura, il bambino ha molto bisogno di uno spazio dove poter elaborare i propri lutti transgenerazionali, in assenza di giudizio. Il teatro ha il dovere di veicolare emozioni dolorose affinché non ci devastino quando siamo più grandi, altrimenti ci tocca soffocarle con droghe di diverso genere, dallo shopping a tutto il resto…
In questo senso, vi sentite “tutori” del loro immaginario, della loro forza/fragilità?
T. D. N.: Sinceramente non lo so se riuscirei a sentirmi un tutor. Il nostro lavoro può aiutarli, ma personalmente sono anch’io confuso nell’osservare la confusione generazionale. L’unica cosa che posso fare è “fare teatro” perché è una seconda pelle e questo aiuta a capirmi e capire in che modo guardo il mondo accanto a me… e regalare agli altri un esempio di sguardo sulla vita sincero, nella speranza che possa essere adottato dagli altri.
D. G.: Non so come mi sento, ma so che quando entrano gli adulti a teatro è bello e gratifica molto l’ego. Quando entrano i bambini per me si alza la sacralità dell’atto, perché significa seminare immaginario, messaggi, arte in un terreno molto fertile. In questi anni ho sempre riconfermato la passione, l’emozione, il gusto, la commozione di fare lavori che vengono visti dai bambini. Io non penso mai alle fasce d’età, ma creo uno spettacolo pensando che da bambino mi sarei divertito a vederlo e che avrei colto delle cose gustose, da difendere in me. Tutore? No, non so, ma certamente faccio in modo di non urtare la loro sensibilità e, soprattutto, di non offendere la loro intelligenza. Spesso si pensa che i loro pensieri siano piccoli, le loro percezioni piccole e, invece, per me è il contrario, arrivano anche al metafisico, sono spiriti estremamente raffinati e sensibili! Il bambino vuole essere ispirato.
I ragazzi di oggi, osservati con gli occhi di un ragazzo di ieri; come guardi all’infanzia?
T. D. N.: In questo momento la soglia di attenzione è molto calata nei ragazzi e c’è molta confusione perché tutto è rimesso in discussione e non esistono modelli fermi. La mia paura è che i ragazzi non riescano a riconoscere il vuoto dietro a molte cose che sembrano straordinariamente invidiabili. Avrebbero bisogno di parlare di più, di capire cosa stanno cercando all’interno del vuoto che c’è attorno e che gli viene proposto da social e TV. Questi mezzi, che potrebbero essere strumenti molto interessanti, sono troppo spesso usati solo come sottrattori di tempo per le nostre vite realmente vissute…
D. G.: L’infanzia, fino a un certo punto, ha ancora i tempi di sempre, quelli della favola, dell’incantamento. Purtroppo, a una certa età, con l’integrazione del tempo del pc e del cellulare, a partire dai bambini sui dieci/undici anni, si perdono questi tempi. È una sorta di sconnessione da quello che hai dentro. Paradossalmente, quando siamo connessi siamo sconnessi. Non è una colpa, ma ci stiamo abituando a dei tempi mostruosamente rapidi di ricezione-risposta che creano un problema. Ma io confido che, nel profondo, ci sia ancora questo tempo dell’incanto… bisogna solo riscoprirlo!
Il teatro può essere un modo sano per ristabilire un rapporto più attento e curioso con la materia dell’arte e le cose della vita?
T. D. N.: È sano nel momento in cui si crea la magia dell’incontro con le classi e scava per aprire a domande e riflessioni, più che per dare risposte. Anche in una classe portata a teatro forzatamente può scoppiare una meraviglia che può segnare l’inizio di un innamoramento. Troppo spesso, però, il teatro è intrattenimento o riproduce la vita che già conosciamo, poggia sulla volontà di non spostare l’asse nemmeno di un millimetro sulle nostre conoscenze…
D. G.: Sì, il teatro ha questa missione di ispirare attraverso la bellezza! Dovrebbe essere un distillato, estrattore di bellezza dalle parole, delle immagini, di attorialità, di cura per il dettaglio e le piccole cose.
Cosa significa abbandonarsi all’esperienza teatrale?
T. D. N.: Abbandonarsi all’esperienza teatrale da un lato vuol dire poggiarsi su una base di sapere e competenze che è il risultato dello studio, degli incontri con i maestri, dell’aver visto e continuare a vedere tanto teatro, dall’altra è seguire un intuito che si fonda sulle pulsioni creative, che via via hanno fondato e continuano a rifondare la mia identità teatrale. La risoluzione di una scena o di un nodo drammaturgico arriva anche e solo se apro “quel” cassetto lì… anzi, a dire il vero, esso si apre da solo, senza invocarlo. Un paracadute che prima o poi però potrebbe non bastare più.
D. G. : (ride, nda) Innanzitutto abbandonare l’idea di perfezione perché il teatro è sempre un’impresa fallimentare! In testa hai un’idea “ideale” che, però, si deve rapportare alla realtà che è un attrito e porta sempre a un cambio, a confrontarsi con la vulnerabilità dell’opera d’arte e al confronto con il pubblico che interagisce nella chimica finale. Significa anche abbassare le proprie difese per mettere in scena i propri mondi interiori, i sogni, i traumi. Vuole dire, forse, anche un po’ guarirsi perché è uno spazio creativo, un luogo sano dove mettere a tacere le proprie disfunzioni, i propri mostri, proprio per il potere dell’atto creativo in sé!