Paloma visto da Michele Di Donato su Il Pickwick
A concludere la fase dicembrina di Kids è Paloma di Michela Marrazzi, spettacolo che ritrovo a un anno e mezzo di distanza; visto a Trepuzzi durante l’edizione 2018 de I Teatri della Cupa, quand’era ancora soltanto uno studio, lo ritrovo diventato spettacolo compiuto. Ed è cambiato molto – diciamo pure tutto – a cominciare dalla creatura animata da cui prende il nome. Di quella bambola originale, più grezza per fattura, quella che è in scena imbracciata dall’attrice, conserva l’essenza e lo sguardo contristato, avendo però una forma vera e vivificante, come fosse creatura di carne e sangue pulsante; l’avevamo lasciata bambola ancora in fase di artigianato primario a cui andasse cucita addosso una storia allora solo in abbozzo, la ritroviamo che par cosa viva, che di una storia si fa portatrice tanto credibile da sembrar carne e non materia inanimata. Sussiste un rapporto simbiotico tra la bambola e chi la muove: la voce della Marrazzi muta e si modula, come se l’anima umana trasmigrasse nel corpo della materia, l’uso di un ricco apparato simbolico condensa e amplia gli strati della narrazione, che non ha parole se non quelle delle canzoni che l’attrice in scena intona e qualche espressione biascicata dalla voce roca della vecchia Paloma, che pare vagheggiare il nome di un’assenza, solfeggiare appena il suono d’una parola filiale, forse un affetto strappato al seno materno e non più ritrovato, sicuramente l’impossibilità di smettere di cercarlo. E nel frattempo piangerne. Paloma sembra incentrarsi sul sentimento del tempo, sul senso del caduco: in scena un attrice, un musico e un metronomo, una nuvola in alto che sa di cieli lontani che piangono mestizia, di Messico, nuvole e facce tristi dell’America, com’è triste la faccia e la voce di Chavela Vargas, le cui canzoni struggenti sono colonna sonora dello spettacolo, di lacrime e malinconie per il tempo che fugge, che scappa portandosi via gli affetti, lasciandosi alle spalle occhi gonfi di lacrime, come nuvole che annunciano pioggia. Paloma entra in scena con un rantolo, timidamente, quasi di soppiatto, come portandosi dietro la fatica di un vissuto, in realtà spingendola avanti quella fatica, o meglio portandola dentro, i suoi passi sono scanditi dal suono della fisarmonica di Mattia Manco, il quale a un tratto ferma il metronomo ch’egli stesso aveva fatto partire, per poi riavviarlo ancora, sospensione momentanea d’un tempo che invece si dilata nella percezione della donna. Parte Paloma negra, un bacio al medaglione che la vecchia porta al collo, mentre sul volto le sono impressi i solchi del tempo, rughe nelle quali c’è il riflesso delle pieghe di un’anima. Un’anima che si specchia nel proprio armamentario scenico, nel contenuto delle valigie che si aprono in successione: Paloma nella prima si rimira, persino divertita; gioca, danza, estrae oggetti, la cipria, una spazzola, un boa di struzzo: valigie contenitrici di storie e di ricordi, scrigni di vita, specchio di sogni vagheggiati e desideri infanti, o forse solo sospesi, come il tempo dell’attesa, in un’altra valigia una specie di lanterna magica: “Mamma”, suggerisce una voce, un album di famiglia, contenente las simples cosas, le cose semplici che riempiono una vita, mentre s’incastona un vezzo di rosso fra i capelli. Fino a che è la sua mano a fermare il tempo, a sospenderlo per la durata d’un lazzo col musicista che le è accanto. Impasta qualcosa di dolce, per un po’ sembra che anche la sofferenza sia sospesa, fino a concederle la tregua del sonno, fino al risuonare d’una sveglia: segnale d’uscita dai ricordi e di ritorno al presente. L’apparato simbolico s’arricchisce d’un elemento altro, macabro e scheletrico, che sembra suggerire un rituale magico e misterico. La fisarmonica è come un soffio di vento, sulle cui note s’evoca ancora il nome di Alfonso di quel bimbo forse smarrito, del quale un cavalluccio rosso si fa metonimia della perdita. Finisce in uno scroscio di pioggia, nelle note e nelle parole di una sorta di testamento spirituale: “Niña cuando yo muere no llores sobre mi tumba / Niña si tu me cantas, yo siempre vivo y nunca muero” e l’ultimo y nunca mueronon proviene dalla voce dell’attrice ma affiora sulle labbra della bambola, padrona del suo tempo, dei suoi ricordi, delle sue speranze. Paloma è spettacolo delicato, di grande potenza evocativa, che non ha bisogno di parole ulteriori per comunicare. Cerca ancora il proprio ritmo interno, che probabilmente acquisirebbe replicando, ma mostra già una forza poetica notevole, che arriva allo spettatore con tutto il proprio portato emozionale.
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