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Sul focus teatro e disabilità del progetto Cross the gap - Michele Di Donato su Il Pickwick


Tornare a Kids per me è ogni volta come tornare a un’infanzia lontana e sospesa, tornare al bambino che ero e a quel precoce senso di ”adultizzazione” (o adulterazione?) intervenuto in anticipo sul mio candore, a svilire in parte la più autentica capacità di provare stupore; quel candore e quello stupore mi pare di recuperarli quando torno a Lecce, a Kids, e mi accoccolo alle cure di chi ti fa sentire accolto, aiutandoti maieuticamente a recuperare un sentimento puro di partecipazione, di condivisione, un sentimento al centro del quale c’è il teatro, ma intorno al quale pulsa l’intima essenza di una comunità che mette in moto e guida una macchina organizzativa ‘ecologica’ e confortevole.

Per la prima volta, a differenza del passato, comincio Kids dalla fase dicembrina, anticipandomi rispetto al nuovo anno. Edizione che a un primo sguardo alla programmazione potrebbe sembrare “autarchica” (basti vedere quante produzioni delle compagnie ‘di casa’ ci sono), rispetto alle precedenti, ma che mi renderò conto in corso d’opera avereuna sua coerenza programmatica, che si va a innervare perfettamente sul focus di quest’anno incentrato su “Teatro e disabilità”, a cui saranno improntati gran parte degli spettacoli e a cui sarà dedicata una intera (e assolutamente proficua, benefica, persino necessaria) giornata di incontro e confronto, in un convegno guidato da Andrea Porcheddu. Perché un festival – potrà sembrare un’ovvietà – non è solo un susseguirsi di spettacoli. Il focus Ed è proprio da questa giornata di incontri che mi piace partire, sovvertendo una filologica cronotassi del resoconto festivaliero. Perché è quella giornata che, in consonanza con l’intera rassegna, rappresenta per me il passaggio più significativo, mi fornisce il filtro migliore con cui foderare di diafana chiarezza lo sguardo; è da qui, da questa giornata, che nascono le considerazioni più significative su questa edizione di Kids e le riflessioni più determinanti. Perché mi porto dietro delle lezioni, degli ammaestramenti, dei surplus di senso che travalicano le questioni ordinarie spesso dibattute attorno al teatro, a cominciare dal distinguo forzoso tra “teatro ragazzi” e “teatro tout public”, o ancora le varie declinazioni di teatro sociale, teatro che dicesi civile, teatro contemporaneo, teatro politico: tutte definizioni e apposizioni che finiscono per aggiungere un superfluo sfrondabile. Perché il teatro è già sociale, è già di per sé civile, è giàcontemporaneo nel suo accadere, è già politico nella sua atavica essenza di accogliere attorno a sé una comunità; il teatro è teatro, senza bisogno di apposizioni specifiche che ne integrino un senso di per sé palese e il focus su “Teatro e disabilità” delle Officine Cantelmo del 4 gennaio sembra essere lì a volercelo ricordare, attraverso una pluralità di sguardi e di esperienze, testimonianze di operatori italiani e stranieri espresse e messe in comune affinché fossero reciprocamente a disposizione e al servizio di una riflessione seria e rigorosa sul tema. Ascolto, prendo nota, apprendo e faccio tesoro. Il teatro non è sociale, ma sociale è la sua funzione, nel momento in cui crea modelli di accessibilità. La prima traccia a cui mi lego è quell’Hubu Roi visto mesi addietro e diretto dallo stesso Tonio De Nitto nell’ambito del progetto Cross the Gap, apparso una sera a Bitonto e che da lì ha fatto rotta per la Grecia per poi esaurire le proprie repliche; spettacolo che anteponeva al titolo di Jarry una acca iniziale, che ne suggeriva l’idea in base alla quale era declinato, per poi subito dopo farti dimenticare in corso d’opera dell’handicap a cui quel titolo era ispirato e vorticare tra le giduglie con la coerenza dello spettacolo compiuto. Da quella traccia traggo spunto per coglierne un seguito ideale (e programmatico) nelle parole che ascolto, nelle immagini che vedo, nelle riflessioni che si susseguono sulle discriminanti economiche e culturali che sono alla base di ogni forma di disagio. Artisti notevoli portatori di disabilità: come ci si lavora? Se dovessi identificare una stella polare da seguire, la ritroverei nelle parole di Antonio Viganò (Teatro La Ribalta di Bolzano, Accademia della Diversità), che risuonano emblematiche, pregne di un senso inoppugnabile: “Il teatro, nel momento in cui diventa ‘socialmente utile’ svende sé stesso”, perché, come s’accennava dianzi, il teatro o è sociale o non lo è e la ‘diversità’ sta proprio nel mettere al centro questo concetto, salvando il ruolo del teatro, di “quella ferita” – sempre per dirla con le parole di Viganò – “di cui abbiamo bisogno per sopravvivere”. Perché la diversità non è qualcosa di meno né qualcosa di più: è semplicemente un’altra possibilità. E va benissimo che il teatro se ne occupi, metta in scena, purché non scada nell’animazione sociale: chi mette in scena l’alterità deve saperla trasformare; la sfumatura fondamentale sta nel comprendere che non abbiamo bisogno della teatroterapia, ma di un teatro che sia capace di essere terapeutico. All’intervento di Viganò s’accoda quello di Damiano Scarpa di Alcantara Teatro: “Ogni parola che aggiungo alla parola teatro è discriminante”, ancora il concetto di ferita che ritorna, così come quelli di disabilità e quotidianità, riproposto e rideclinato anche da Simone Guerro di ATGTP. E comprendiamo – di contro – che se è vero che c’è un teatro che ha bisogno della ferita, è vero anche che c’è una ferita che ha bisogno del teatro. Si susseguono gli interventi, da Robert McNeer (La luna nel pozzo) che, spiegando la cultura dell’errore che si impara attraverso il lavoro del clown, ci regala la definizione di “normopatici” per ribaltare una prospettiva consuetudinaria, a Martina Kolbing Reiner del Mezzanin Theater di Graz, la quale racconta di come la loro realtà possa usufruire di fondi non derivanti dalla spesa sociale ma dalla cultura, il che testimonia un’attenzione e una concezione decisamente avanzata della valenza socio-culturale del teatro da quelle parti. A seguire prendono la parola il regista Enzo Toma, Vito Minoia della rivista Catarsi – I teatri delle diversità, Paola Martino dell’Università del Salento, Detlef Kohler del Theater Gruene Sosse di Francoforte, ma sono a mio avviso soprattutto due interventi che raccontano esperienze umane e personali a concludere e portare a sintesi la giornata d’incontri: quello di Vincenzo Deluci, musicista dell’Associazione Accordiabili, suonatore di tromba che ci parla di un sogno che un incidente sembrava aver negato e che oggi appare restituito e, per chiudere Francesco Stefanizzi, che avevamo visto recitare il giorno prima al Museo Ferroviario, e che prendendo la parola dal pubblico, con un intervento che pare sinallagma di quanto detto da Viganò, ribadisce l’inutilità di etichette e apposizioni superflue, in quanto ogni specificazione non richiesta è di per sé escludente e con fierezza e decisione rivendica di essere un “attore” non un “attore disabile”, perché andare in scena non è “fare un’esperienza”, ma essere lì vuol dire qualcosa che è semplicemente sintetizzabile in due sole parole: “Sto lavorando!”.


Su Diario di un brutto anatroccolo non mi dilungo, avendone già scritto a suo tempo, se non per confermare che è (resta) uno degli spettacoli del cuore, che rivedo sempre con gioia e non senza provare un istintivo moto di commozione ad ogni nuova visione. Nella fattispecie, rispetto al passato lo rivedo privo di Ilaria Carlucci, sostituita da Michela Marrazzi, senza che la resa scenica dello spettacolo ne risenta. Con la stessa compagine attoriale avrebbe dovuto debuttare a Kids anche Peter Pan, il nuovo spettacolo di Factory; purtroppo l’assenza della Carlucci e l’impossibilità di rimpiazzarla in tempi brevi e contingentati ha impedito che lo spettacolo avesse luogo, lasciandoci con una curiosità sospesa e in attesa di poter essere in futuro appagata.

Rimanendo in tema di delicatezza, Ali della Compagnia La Ribalta di Bolzano, spettacolo diretto da Antonio Viganò, ne è pregno. Si tratta di un lavoro “storico” della compagnia, eppure non si può dire che vi si sia posata su la patina del tempo. Una scena ingombra di pietre a ricordare la durezza della vita e del lavoro necessario per condurla, un angelo aptero, che sembra aver lasciato le proprie ali nel cielo sopra Berlino, discende dall’alto di un palo della luce e interagisce con un uomo dall’animo disilluso (“Qui non c’è più niente da imparare”). Tra i due s’instaura un gioco che è anche una sfida, sembrano a tratti due anime beckettiane senza nemmeno un Godot da aspettare, in un deserto umano e naturale, arido e brullo. Esistenze sospese che s’incontrano, tra la diffidenza dell’uno e il candore dell’altro, all’ombra lunga e sottile di un palo confitto nel terreno, in un campo dall’apparenza sterile, ma da provare comunque a coltivare, per rompere la durezza della pietra e scoprire la leggerezza delle piume. La musica struggente di Tenco a sottolineare e suggellare l’incontro di due anime capaci di rompere l’iniziale incongruenza comunicativa e di colmare l’apparente distanza tra le rispettive istanze, fino a giungere a un connubio che essenzialmente dimostra, con la delicatezza della poesia, che nel fondo dell’umano alberga comunque un afflato chiamato vita, anche quando l’apparenza potrebbe suggerire il contrario.

Di tutt’altra fattura è invece Tarte au chocolat, degli austriaci di Mezzanin Theater, una commedia slapstick dai toni estremamente godibili, giocosa e gioiosa, giocata sui meccanismi della comicità immediata, incentrata sui pasticci compiuti da due clown, Erwin Slepcevic e Jean-Paul Ledun, uno “muto” e l’altro che riesce a esprimersi in un italiano abbastanza comprensibile, ancorché approssimativo e reso ancor più comico dalle immancabili storpiature, i quali si arrabattano in una serie di disastrosi procedimenti per preparare una torta al cioccolato. È uno spettacolo all’insegna della leggerezza, Tarte au chocolat, che raggiunge pienamente il proprio scopo: regalare un’oretta di puro divertimento all’insegna dei più tradizionali e atavici stilemi della comica tradizionale, quella per intenderci che suscita il riso quando vediamo un uomo scivolare su una buccia di banana. La genuinità della fattura e la riuscita dell’intento fanno sì che si perdoni con facile indulgenza la non perfetta pulizia dell’esecuzione dei due clown, che di contro regalano momenti di grande ilarità raccogliendo la partecipazione entusiasta degli astanti. Venendo a note meno esaltanti, spettacoli che ho trovato al di sotto delle aspettative sono stati quelli collocati nell’ultimo segmento del festival. Per ragioni differenti, Il grande gioco di Simone Guerro, Joseph Kids di Alessandro Sciarroni e De(s)presso di Michele Comite mi hanno lasciato più di una perplessità. Il grande gioco di ATGTP parte da un presupposto interessante, il rapporto tra due fratelli, in un tempo reso stringente dall’incombere di una malattia. Tra i due s’instaura un rapporto in forma di gioco scandito da una lista di cose da fare insieme, una sorta di decalogo che renda pieno il tempo condiviso, abitandolo di tutto l’affetto che sia possibile condensarvi; purtroppo lo spettacolo sconta una certa staticità scenica e una sostanziale assenza di ritmo che lo appesantiscono rendendone faticosa la visione e inficiando l’efficacia del plot, efficacia che rimane tutta in potenza, senza potersi poggiare su scelte registiche veramente significative. Anche per quanto riguarda De(s)presso, lo spettacolo di Michele Comite che chiude il festival, sono più le ombre che le luci: il tentativo è quello di raccontare attraverso la forma del teatro uno dei mali del nostro tempo, la depressione. In scena un uomo e una donna (lo stesso Comite e Alessandra Carraro), una piccola porta rossa dagli stipiti neri e due enormi tazze. Se il valore simbolico della scena può essere facilmente interpretabile (la porta come elemento di passaggio tra la normalità e gli stati depressivi, le tazze come due gusci nei quali sprofondare e rintanarsi, oltre che elementi che richiamano allusivamente al gioco di parole “caffeinoso” del titolo), è nello sviluppo drammaturgico che De(s)presso mostra il limite di un congegno che funziona a intermittenza e che fatica a raggiungere un approdo concreto ed efficace. In conclusione – e complessivamente – Kids si conferma un appuntamento qualitativamente elevato col teatro (senza apposizioni ulteriori), un festival dal quale si va via felici d’esserci stati, contenti di ciò che s’è veduto e un po’ più ricchi per quel che s’è imparato. E forse anche un po’ più consapevoli e capaci di prenderci cura del bambino precocemente adultizzato che c’è in noi, del cui candore e del cui stupore troppo spesso non ci accorgiamo di esserci colpevolmente dimenticati.


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