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“… labile come ombra, corto come sogno, rapido come saetta”

Un sogno è un sogno e, senza il bisogno di scomodare Freud, lo si può interpretare, raccontare e far rivivere come più aggrada alla nostra fantasia; un sogno è un sogno, ed è nel pieno diritto del padrone di quel sogno calibrarne luci e colori, timbri e toni di voce; un sogno è un sogno, anche quando è opera teatrale, anche quando autore di quell’opera è William Shakespeare e, proprio perché è un sogno, il Sogno di una notte di mezza estate lo si interpreta, lo si racconta e lo si fa rivivere come lo sogna non più William Shakespeare ma chi di quel sogno s’appropria.


E ad appropriarsene sono Tonio De Nitto e la Compagnia Factory Transadriatica, che consegnano alla scena un sogno come l’ha scritto il Bardo, macome l’hanno risognato loro, riscrivendone parziali partiture, ricolorando cromìe di scena, riamalgamando l’impianto drammaturgico, in una parola giocando con l’originale play shakespeariano. Quel che ne scaturisce è una rivisitazione solida e ridanciana, che vela del frizzo ironico lo spessore drammaturgico che la sorregge. Vi è alla base un minuzioso lavoro di riscrittura e di regia, che porta in scena una freschezza inventiva che ha le tinte sgargianti che si riverberano in ribalta e che declina Shakespeare in un esperanto polifonico in cui l’italiano si mescola allo slavo.


È una messinscena, questo Sogno che, se da un lato gioca per sottrazione, rinunciando alla tradizionale – e secondo Jan Kott stucchevole – rappresentazione arcadica del bosco come location fiabesca dell’azione, demandata unicamente ad una fila di infiorescenze illuminate in proscenio, dall’altro gioca a sovrabbondare in termini visivi e narrativi, inserendo aggiunte testuali, tirando in scena il pubblico per mano di due degli artigiani (gli unici previsti da questa messinscena), Quince e Bottom, che immettono nella pièce la componente più goliardica e divertente; e ancora, in questo sovrabbondare volutamente kitsch, s’innestano inserti musicali che raccontano gli intrecci amorosi come ce li saremmo sentiti raccontare negli anni Sessanta da Rita Pavone, Adriano Celentano e Little Tony (Cuore, 24 mila baci e Cuore matto), per poi virare, tra fate nane colorate, scene mimate al ralenti, pronunce onomatopeiche e un certo modo meccanico di dire “ciao”, in direzione degli anni Settanta, evocando atmosfere che sembrerebbero uscite da un film di Kusturica (Ti ricordi di Dolly Bell?), veicolate da una Oh! Carol in lingua slava.


È un gioco, un grande gioco molto ben costruito, quello che prende forma sulla scena e che non solo replica l’ormai consolidato doubling shakespeariano nelle figure di Teseo/Oberon e Ippolita/Titania, ma lo allarga anche agli altri personaggi, chiamati da una scena all’altra a cambiarsi d’abito e ruolo. Ed è un gioco, questo Sogno, che fa uso di contaminazioni e rimandi (qua e là si coglie qualche frase del Romeo e Giulietta), enucleandosi come un gioioso divertissement, un compiuto tentativo di giocare col Bardo stando alle regole del Bardo, cui s’aggiunge declinazione personale, fantasia scenica plurilinguistica e visiva; a poco della struttura drammaturgica originale rinuncia questo Sogno, molto mettendoci in aggiunta, di testo e di rielaborazione scenica. E, se la componente marcatamente comica s’affida a Quince e Bottom che tirano sul palco tre spettatori per essere leone, muro e Tisbe nell’allestire il Piramo e Tisbe, di contro, nella figura di un Puck vestito unicamente


d’una foglia all’altezza del pube, si condensa l’essenza caprina e lasciva del diavoletto, dello spiritello che era Ariel nella Tempesta, perdendo però buona parte delle peculiarità di “regista in scena” che del Sogno fondamentalmente Puck è; ci troviamo dinanzi infatti ad un Puck dimidiato, e l’impressione che abbiamo è che sottenda alla rappresentazione l’intento di offrire una messinscena corale, in cui ad ogni personaggio s’intenda concedere pari dignità, ponendo tutte le figure su un piano paritetico che, a nostro avviso, fa il paio con la pari dignità che si concede in assito a lingue non reciprocamente intellegibili, ma che pure s’esprimono attraverso una comprensibilità metatestuale. Come pure non ci pare affatto un caso che, quello che nel testo originale è il monologo conclusivo recitato da Puck, divenga espressione corale d’epilogo pronunciata dall’intera compagnia, che il folletto chiosa con un semplice “buonanotte”.

Nel turbinio di un movimento continuo, in un’azione senza soste che si dipana da quando le luci appese a mo’ di due drappi in fondo di scena vengono sciolte a formare una sorta di finto sipario, procede il gioco degli amori inseguiti e non ricambiati, degli incantesimi tentati e falliti, delle macchiette orchestrate da Quince e Bottom; funziona e funziona bene, questo Sogno, gioioso e giocoso, colorato e musicato, giostra e sarabanda che con l’apparenza guizzante delle ombre saetta negli sguardi di chi vi assiste, regalando quel che un sogno deve regalare: l’illusione d’aver vissuto qualcosa di reale.

Perché un sogno è un sogno, e l’illusione è nella visione di chi di quel sogno s’appropria. Visione che ha nell’applauso la giusta ricompensa.

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