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Il Misantropo visto da Mario Bianchi su klpteatro.it


IL MISANTROPO DI FACTORY E L’ATTUALITÀ DEL DECLINO


La compagnia salentina Factory rappresenta un piccolo caso virtuoso nel panorama teatrale italiano. Formata da un folto gruppo, scelto tra i migliori rappresentanti della scena pugliese e capitanati da Tonio De Nitto, è riuscita a farsi notare a livello nazionale per la qualità degli spettacoli e per la capacità di veicolarli soprattutto con le proprie forze in diversi teatri italiani.

Dopo aver affrontato in modo fecondo, contaminandoli di significati e contesti contemporanei, tre capolavori del Bardo (“Sogno di una notte di mezza estate” nel 2011, “Romeo e Giulietta” nel 2012 e “La Bisbetica domata” nel 2015), eccola affrontare un nuovo classico del tutto differente, “Il Misantropo” di Molière.


De Nitto viene aiutato in quest’impresa in modo determinante dalla traduzione e dall’adattamento di Francesco Niccolini, che imbeve di umori attuali le parole del drammaturgo francese, e che non a caso ha scelto per questa sua nuova fatica “Il Misantropo”: il testo gli permette infatti di avventurarsi in terreni favorevoli per poter approfondire e stigmatizzare, in modo agevole e per nulla metaforico, i tempi contraddittori in cui viviamo oggi.


Il personaggio principale della commedia, Alceste, sembra vivere in prima persona tutte le difficoltà che, mutatis mutandis, anche oggi possiede chi intende vivere la propria vita basandosi su rigidi principi di onestà e purezza, ridicolizzando nel contempo chi vive di espedienti per mantenere i propri privilegi, a discapito del bene comune, come fa il protagonista nella commedia con le convenzioni e l’ipocrisia degli aristocratici francesi dell’epoca, ben rappresentati da Acaste e Clitandro.

Alceste dice schiettamente ciò che pensa, senza compromessi, come invece gli suggerirebbe l’amico Filinte, inimicandosi tutti, soprattutto il vendicativo Oronte, di cui sbeffeggia i risibili versi, che invece potrebbe aiutarlo in una causa che gli si sta intentando contro, e che alla fine lo vedrà perdente.

Il medesimo atteggiamento lo penalizzerà anche nei rapporti che intercorre con le donne: l’amata Célimène, qui rappresentata come una irraggiungibile diva del cinema, alla fine lo lascerà, spaventata dal ritiro lontano dalla società che Alceste le propone; l’intrigrante Arsinoè in gramaglie nere, di cui comprende la disonestà di fondo, verrà rifiutata, mentre l’ultima possibilità rimastagli, la semplice e onesta Eliante, alla fine se ne andrà con l’amico del cuore Filinte (l’unico che gli era rimasto vicino), rappresentati con tanto di valigia, come molti giovani nel nostro Paese. Alceste è dunque costretto ad uscire di scena, abbandonando il palco, sconfitto da una società che non gli corrisponde e di cui rifiuta le regole.


Ma lo spettacolo non si limita a sottolineare il decadimento dei costumi; con accortezza psicologica si sofferma ad approfondire la solitudine di ogni personaggio, anche di quelli che sembrano essere apparentemente a loro agio in un mondo siffatto, a cominciare proprio dai due marchesini, Acaste (che canta desolatamente a squarciagola la canzone neomelodica “Voglio Fa Ammore Dint’A Macchina”), e Clitandro, che prima si leva sconsolato la parrucca impomatata e alla fine, parafrasando il Firs de “Il Giardino dei ciliegi”, se ne resta da solo, anche lui sconfitto, su un palco desolatamente distrutto.

Perché man mano che la solitudine di Alceste si fa più profonda, e con essa la consapevolezza che il mondo in cui tutti i personaggi vivono sia in procinto di declinare, il palco, all’inizio splendente di luci, circondato da una cornice d’oro, e il fondale, gioiosamente fiorito, cominciano poco a poco a sfaldarsi e ingrigirsi: il grande lampadario che sormontava la scena cade in pezzi, suoni sinistri si impossessano della scena, mentre il sofà, sul quale si consumavano i riti falsi della quotidianità, sprofonda, sottolineando le significanti scene di Porziana Catalano e Iole Cilento, accompagnati dai costumi, allusivi, di Lapi Lou.


Uno spettacolo, questo “Misantropo”, in cui nessuna cosa è lasciata al caso: dalle musiche, pensate da Paolo Coletta per caratterizzare ogni personaggio (da Corelli per Eliante all’Habanera che introduce Celimene a Ligeti per Alceste), alle luci di Davide Arsenio, che conferiscono un’intonazione cinematografica alle scene finali e permettono di intravedere, di tanto in tanto, dietro al fondale, le ossessioni dei vari caratteri messi in scena.

Un lavoro d’insieme pregevole, a cui partecipano in modo consono anche tutti gli interpreti: Ippolito Chiarello (Alceste), Angela De Gaetano (Célimène), Sara Bevilacqua (Arsinoè), Dario Cadei (Clitandro), Ilaria Carlucci (Eliante), Franco Ferrante (Oronte), Luca Pastore (Filinte), Fabio Tinella (Acaste) e la romagnola Accademia Perduta che ne sostiene la produzione.



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